“L’Isis non è semplicemente un gruppo terroristico” ha detto pochi giorni fa il segretario alla Difesa americano Chuck Hagel. Con le sue conquiste nel nord dell’Iraq, lo Stato Islamico ha tirato gli Stati Uniti di nuovo dentro quel convulso conflitto mediorientale dal quale Obama aveva voluto uscire. Oggi l’Isis rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti e per l’Europa, a detta delle principali cancellerie occidentali. Ma come siamo arrivati a tutto questo?
La CNN ha ricordato come Abu Bakr al-Baghdadi, il leader dell’Isis, abbia accuratamente preparato nel corso degli ultimi anni l’offensiva di queste settimane: intimidazioni, attentati, omicidi, azioni militari mordi e fuggi. Il nome dell’Isis circolava nelle regioni dell’Iraq molto prima che le milizie armate sfondassero sul serio. Oggi quelle quattro lettere bastano a gettare nel panico le popolazioni che si trovano sulla sua strada e ad attirare i fondamentalisti di mezzo mondo.
Ma le vittorie dello Stato Islamico, che in poche settimane ha messo le mani su una vasta porzione di territorio settentrionale iracheno, sono dovute in larga parte anche alla debolezza degli avversari incontrati sul campo. Il quotidiano Jerusalem Post ha sottolineato come le conquiste militari dell’Isis si siano limitate a due paesi, la Siria e l’Iraq, dove il governo centrale è debole a tal punto da non poter esercitare il controllo sull’intero territorio.
Nella Siria della guerra civile, lo Stato Islamico controlla una ampia fetta di territorio. Nelle regioni settentrionali dell’Iraq, le truppe regolari di Baghdad si sono squagliate come neve al sole, lasciando strada spianata ai jihadisti e permettendo loro di impossessarsi di armi ed equipaggiamenti pesanti. Dopo aver retto per un po’ l’urto delle milizie nemiche, per riprendere a combattere i curdi hanno dovuto aspettare l’aiuto della comunità internazionale, un aiuto arrivato sottoforma di armamenti e bombardamenti.
Sul Washington Post, Marc A. Thiessen ha messo tra le cause dell’avanzata dello Stato Islamico anche la distanza che Washington ha voluto tenere rispetto al Medio Oriente: “Questo atteggiamento è precisamente il motivo per cui lo Stato islamico è stato in grado di prendere il controllo di una fascia di Medio Oriente grande come il Belgio”.
Photo by The U.S. Army – CC BY 2.0
Alcune potenze del Medio Oriente – Arabia Saudita, Qatar, Kuwait – sono sospettate di aver finanziato l’Isis. Nel nord dell’Iraq, sunniti ed ex baathisti (gente cioè che sosteneva il partito Baath di Saddam Hussein) hanno inoltre accettato – e in alcuni casi appoggiato – l’avanzata dello Stato Islamico perché avevano interesse a rovesciare il governo sciita di al-Maliki, colpevole di aver condotto politiche discriminatorie. Un obiettivo che è stato raggiunto. Ecco perché gli alleati più o meno espliciti incontrati lungo la strada dallo Stato Islamico potrebbero non essere tali da qui ai prossimi mesi: e questo è uno degli elementi che potrebbe incidere sul destino dell’organizzazione.
Come ha scritto il New York Times, l’Isis è un ibrido tra un gruppo terroristico e un esercito e si sta dimostrando capace di compiere operazioni su vasta scala, mantenendo il territorio conquistato. Alcuni ex ufficiali dell’esercito iracheno del tempo di Saddam Hussein sono confluiti nelle fila dello Stato Islamico, a detta dei servizi di intelligence occidentali, ed è gente che ha sommato competenze terroristiche a un background militare.
Ma secondo Charles Lister, ricercatore presso il Brookings Institution, l’esercito dell’Isis resta comunque inferiore a molti altri. Lo è ovviamente rispetto alle forze militari statunitensi, ma faticherebbe a reggere il confronto anche al cospetto dell’esercito regolare iracheno, che fino a oggi ha evitato lo scontro frontale preferendo attendere lo sviluppo degli eventi nel centro-sud del paese.
Sul campo, la situazione potrebbe cambiare nel caso in cui il territorio conquistato dallo Stato Islamico venisse attaccato simultaneamente da più lati. È l’opinione di Michael Knights, ricercatore presso il The Washington Institute for Near East Policy: per battere lo Stato Islamico occorre un maggiore coordinamento tra le parti in causa e occorre invertire la tendenza costringendo l’Isis a svestire i panni della forza inarrestabile, forzandolo a giocare in difesa. E bisogna colpirlo anche in Siria, dove può ripiegare in caso di disfatta in terra irachena.
L’Isis è una forza che per costituzione deve stare all’offensiva, ha spiegato Knights, è una forza che utilizza il contrattacco anche come arma di difesa. Il tavolo va ribaltato. La proclamazione del Califfato Islamico da parte di Abu Bakr al-Baghdad pone lo Stato Islamico nella condizione di dover dimostrare di saper difendere il territorio conquistato: il Califfato è tale solo se in grado di resistere alle offensive del mondo esterno.
Il destino dell’Isis è legato al destino del territorio conquistato. Al tedesco Der Spiegel, Charles Lister, ha ricordato che lo Stato Islamico guadagna fiumi di denaro attraverso la vendita di petrolio al mercato nero, ma anche controllando le risorse idriche della regione. Questo denaro viene utilizzato per pagare la campagna militare e per finanziare il controllo del territorio, anche attraverso servizi sociali. L’Isis sta cercando a tutti gli effetti di imporsi come una sorta di realtà statale che riesce ad esercitare il controllo sulla popolazione anche perché alla popolazione non restano spesso alternative: o sottomettersi o perire, considerata l’assenza di una forza militare che possa fornire assistenza.
Immagine in evidenza: photo The U.S. Army – CC BY 2.0