Il New Statesman, i combattenti per l’Islam e… Magdi (“Cristiano”?) Allam
Alcuni giorni fa il New Statesman, autorevole periodico culturale di area laburista, ha pubblicato un interessante articolo in cui l’esperto editorialista Mehdi Hasan ha preso in considerazione verbali processuali ed elementi trapelati dalle indagini di intelligence su terroristi e combattenti jihadisti originari della Gran Bretagna o a lungo residenti nell’arcipelago, così da tracciarne un primo profilo socio-culturale.
Il risultato è ben riassunto nelle parole di un memorandum dell’MI5 reso pubblico dal Guardian:
Far from being religious zealots, a large number of those involved in terrorism do not practise their faith regularly. Many lack religious literacy and could […] be regarded as religious novices.
Il quadro, che conferma sostanzialmente le conclusioni attualmente più comuni tra i maggiori analisti del fenomeno, è quello di una strada verso la partecipazione alla “guerra santa” che trova i suoi punti di partenza più che altro nel disagio sociale e culturale, nello sradicamento, nel disperato senso di impotenza, e anche nell’ignoranza delle implicazioni della scelta che si sta per compiere, mentre, conclude il documento dell’MI5,
a well-established religious identity actually protects against violent radicalization.
Il paradosso di combattenti pervenuti a una scelta estrema e radicale nell’affermazione di una identità religiosa senza esserne coinvolti se non marginalmente è del resto solo apparente, solo che si pensi da un lato all’elevata problematicità a coniugare certi comportamenti con i valori di fondo di una religione universalistica fondata sull’unione e sulla fratellanza, dall’altro alle pratiche che hanno condotto alla selezione e alla formazione dei nuovi combattenti della fede, passati da un luogo all’altro in cerca di guerre da combattere senza mai trovare nelle specifiche ragioni di conflitto motivazioni sufficienti a radicarvisi. Che il riferimento all’Islam e al suo trionfo finale sia insomma strumentale rispetto a nebulosi obiettivi di eversione, di ribellione, o semplicemente di una collocazione più netta rispetto a un mondo che sembra privo di punti di riferimento forti (o intellettualmente “riposanti”, in tanta incertezza) e per questo difficile da vivere.
Conclusioni di questo tipo dovrebbero farci riflettere sulla natura del conflitto ora latente, ora conclamato, che ormai da decenni caratterizza i rapporti internazionali. Un conflitto che non vede tanto l’“occidente” schierato contro un “Islam” ostile, quanto una società globale sempre più complessa da interpretare e da “domare” da parte degli individui e soggetta frequentemente a crisi di rifiuto e di rigetto il cui rimedio non può essere quello di trovarsi qualche “demone” di comodo contro cui inveire, soprattutto se appare sempre più chiaro che atteggiamenti di ispirazione religiosa spesso condannati o quantomeno guardati con sospetto costituiscono in realtà un elemento decisamente superficiale delle scelte più gravi.
Su questo dovrebbero insomma riflettere i tanti commentatori che, anche in Italia e forse qui con una frequenza e un credito persino superiore che su altre piazze mediatiche occidentali, vanno da tempo sbraitando su una realtà culturale che non solo non conoscono, ma di cui ritengono particolarmente pregiato e utile conservare intatta la propria ignoranza. Soprattutto, però, dovrebbe farci riflettere su un altro fenomeno, che verrebbe da dire è quasi speculare (quantomeno nelle dinamiche psicologiche e culturali, visto che la violenza è più ostentata verbalmente che praticata) a quanto sta avvenendo a tanti giovani alla ricerca dell’Islam for Dummies.
Pensiamo infatti a quanto spesso, negli ultimi anni, l’identità religiosa cristiano-cattolica e i suoi simboli sono stati ripresi e strumentalizzati da protagonisti particolarmente attivi del dibattito politico e pubblicistico, nel tentativo di dare grazie ad essi un fondamento idealmente “nobile” a comportamenti di esclusione, alla pretesa differenziazione nei diritti e nel loro esercizio, all’ostilità nei confronti di un diverso che per definizione, in quanto non riconducibile ai contenuti appunto esclusivisti surrettiziamente riversati su tale simbologia religiosa, in essi non poteva essere ricompreso. Tutto questo è avvenuto sicuramente con il consenso e spesso il concreto supporto di aree particolarmente intransigenti della gerarchia ecclesiastica, negli scorsi anni così influenti da aver espresso addirittura il pontefice, e convinte di poter utilizzare tale mobilitazione a loro vantaggio, con ben simboleggiati nel loro fallimento dallo storico evento delle dimissioni di un papa così intellettualmente presente onesto da riconoscere la propria incapacità a governare i fenomeni che gli si ponevano davanti. Tuttavia, la truppa di manovra di queste operazioni era, e per certi versi non poteva non essere, personale intellettuale dotato di scarso o nulla retroterra religioso nella propria formazione, e per questo incapace di avvertire lo stridore che l’imposizione di crocifissi come segno di trionfo quasi “proprietario”, e la stessa concezione territoriale della religione “di casa nostra” contrapposta a quella “di casa loro” provocavano nello scontrarsi con il cuore di un messaggio di pace e di salvezza per sua stessa natura rivolto a tutti e a tutti aperto anche se il suo ascolto non si traduce nell’immediata conversione e nella negazione del confronto con gli altri.
Tra i simboli di questo atteggiamento, negli anni in cui esso rappresentava il mainstream della nostra opinione informata e non era relegato alle fogne della condivisione di bufale su sparate antimusulmane di Putin o di qualche fantomatico primo ministro australiano, si può annoverare sicuramente Giuliano Ferrara, “ateo devoto” proprio perché sublime punto d’incontro del narcisismo autoreferenziale del “politicamente scorretto” tanto caro alle nostre migliori penne conservatrici, da Prezzolini a Longanesi, e del culto dell’ignoranza crassa come strumento di semplificazione nelle analisi e nella scelta delle interpretazioni tipica dei sessantottini. Ma ancora più significativa in un confronto con le traiettorie personali di tanti giovani spostati che ora stanno prendendo le armi per uno jihad di cui ignorano finanche il significato potrebbe essere la figura di Magdi (ancora “Cristiano”?) Allam, visto che nella sua vita ha svolto un percorso quasi opposto, giungendo a una versione di cattolicesimo fortemente rielaborata in termini di contrapposizione militante alla sua cultura di provenienza, nell’evidente proiezione di un disagio esistenziale alimentato da chiusura mentale e incapacità di proporsi al confronto razionale. Le conseguenze di un’adesione maturata su queste basi si sono viste non appena è maturata l’occasione di un confronto con una realtà spirituale e identitaria più complessa di quella attesa. Certo, nel viavai alla frontiera dell’“occidente” Allam ha scelto il tragitto più confortevole, quello che non porta alla dannazione di uccidere e morire, ma alla direzione di un movimento politico alla cui irrilevanza sul piano numerico fa da contraltare la presenza ipertrofica sui media, grazie all’amicizia o alla “non inimicizia” di colleghi di quello che, con le sue sparate, da noi è potuto essere per anni vicedirettore del soi-disant principale quotidiano nazionale.