Chi opererà a terra, e più in generale chi farà cosa. Nella strategia militare che gli Usa intendono adottare per fermare l’avanzata dell’Isis in Medio Oriente, più di una questione resta aperta. Abbastanza da far piovere nuove critiche sul presidente Barack Obama.
Anche le parole assumono un’importanza decisiva, soprattutto se vanno in contrasto l’una con l’altra. Solo poche ore fa il segretario di Stato John Kerry aveva detto che gli Usa “sono impegnati in una operazione anti-terrorismo di notevole portata” definendo “il termine guerra un riferimento sbagliato”. Ieri il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest ha dichiarato che “gli Usa sono in guerra contro l’Isis allo stesso modo in cui sono in guerra contro al Qaeda e i suoi affiliati”.
Sul campo, i raid aerei degli Usa in Iraq contro l’Isis sono arrivati a 158. Ma è proprio ciò che succede e che succederà sul terreno a destare i maggiori dubbi. Michael Hayden, ex generale ed ex capo della Cia e della Nsa, ha definito i raid aerei “scappatelle sessuali senza un domani. Prima portiamo il combattimento in Siria e meglio è”. Piccata la replica del Dipartimento di Stato: “Il generale Hayden conosce bene, da quando era capo della Cia, gli strumenti antiterrorismo di cui disponiamo”.
Photo by The US Army – CC BY 2.0
Michael Hayden non è il solo ad aver espresso perplessità sulla strategia della Casa Bianca. Obama ha detto e ripetuto che non ci saranno “boots on the ground”, vale a dire nessuna invasione, nessun dispiegamento di truppe di terra. In Iraq ci sono già centinaia di soldati americani, però, e come sottolineato dall’agenzia Reuters una presenza di militari sul terreno è indispensabile per condurre efficacemente la campagna contro l’Isis. Ma se quegli stivali non saranno a stelle e strisce, di chi saranno?
Potrebbero essere iracheni. A Baghdad c’è un nuovo governo, ma a oggi la possibilità che le truppe irachene siano in grado di affrontare efficacemente l’Isis è una necessità e speranza, ma non una certezza. La presenza di soldati sul teatro di guerra (e la nazionalità di questi soldati) è un nodo che l’amministrazione Obama prima o poi potrebbe essere costretta a sciogliere.
Ci sono problemi anche con le alleanze. I francesi si dicono pronti a passare all’azione. Gli inglesi sono un po’ più cauti. Ma, soprattutto, la coalizione dei paesi arabi disposti a sostenere gli Usa nella lotta contro l’Isis non hanno ancora fatto sapere chiaramente cosa intende fare. In molti sembrano preferire un coinvolgimento in seconda fila. L’Arabia Saudita è pronta a formare gli eserciti impegnati contro Isis, ma da Giordania, Egitto e Turchia non sono arrivati impegni precisi.
Il ruolo della Turchia è particolarmente delicato: per ora Ankara sembra orientata a dare supporto umanitario e logistico, senza però partecipare alle operazioni militari. In ballo ci sono le basi turche in un paese che condivide i confini sia con la Siria che con l’Iraq, i due teatri dove si concentra la strategia della Casa Bianca.
Infine c’è l’Iran. Kerry ha detto di non volere avere al proprio fianco Teheran, una presenza che secondo Washington sarebbe inadeguata considerata la sua implicazione nel conflitto in Siria. Non solo: il segretario di Stato ha detto che gli Usa non vogliono l’Iran al tavolo che a Parigi dovrà studiare una strategia per sconfiggere lo Stato islamico.