Elogio di Carlo Conti
Negli ultimi anni, grazie all’arrivo delle nuove tecnologie, il sistema televisivo italiano ha visto aumentare in maniera esponenziale la sua offerta. Quante volte ci siamo imbattuti in spot Rai che, invitando il contribuente a non evadere il canone, ricordavano come in proporzione il servizio pubblico italiano fosse quello meno costoso a livello europeo?
Dati matematici e tecnici senz’altro veri. Ma che non tengono conto di un aspetto: a questo aumento “quantitativo” dei canali Rai non si accompagna una crescita “qualitativa” dei programmi televisivi. Che è l’aspetto che il più delle volte rende tale un servizio pubblico. Ormai è una triste realtà entrata nel linguaggio comune: la tv italiana è passata dall’essere la più bella del mondo a quella più brutta.
Se escludiamo la prima fase sperimentale degli anni ’50 (che però partì col piede giusto essendo “Arrivi e Partenze” la massima rappresentanza di un paese desideroso di vivere, di esistere e di sapere quale idea avesse il resto del mondo del Bel Paese), gli anni ’60 da questo punto di vista sono emblematici: si passa dal grande varietà di “Studio Uno”, perlopiù condotto da Lelio Luttazzi, in cui bastava una sola ora per concatenare una serie di scene cult del teatro, della musica e della danza. Per poi passare alla “Biblioteca di Studio Uno” del Quartetto Cetra e Dino Verde in cui si parodiavano, attraverso la tecnica dei centoni, alcuni classici della letteratura internazionale. Classici che a loro volta, se escludiamo qualche ispirazione filmica (come “Il Fornaretto di Venezia” e “La Storia di Rossella O’Hara”), traevano a sua volta spunto da gli storici sceneggiati di Mamma Rai (“Il Conte di Monte Cristo” su tutti).
Ed è forse il passaggio da “sceneggiato” a “fiction” quello che più rende plastico il decadimento del servizio pubblico: a grandi interpretazioni di attori di teatro, capaci di invogliare coloro i quali avevano imparato a leggere e scrivere col maestro Manzi ad acquistare i libri di Dumas e Stevenson, si è passati ad una spartizione politica delle fiction Rai in cui attori di regime rovinano splendide storie italiane. Quello che però in pochi considerano e che ci ha spinto fino a questa situazione è soltanto una cosa: la mancanza di programmazione. Non nel senso tecnico del termine, ma creativo.
Basta leggersi qualche intervista sparsa a Mike Bongiorno per sapere che il format del “Rischiattutto” in realtà era qualcosa che il conduttore italo-americano da qualche anno aveva nel cassetto. Oggi molto spesso la scelta ed il lancio di alcuni programmi sono dovuti alla totale improvvisazione che non consentono al pubblico di entrare in un mood capace di apprezzare appieno i programmi. Puoi esserci anche una motivazione di tipo economico, ma non sarebbe una risposta pienamente esauriente.
In questo caso la vicenda di “X Factor” (e probabilmente anche di “Italia’s Got Talent” in futuro) è emblematica: un programma lanciato su Rai2 ma che diventa fenomeno di costume…su Sky! Cioè su una tv a pagamento di “nicchia”! Questo perché l’enorme mole di programmazione tecnica non consente a sua volta una programmazione creativa su nuovi format, canali e programmi. Insomma: la Rai non avrebbe avuto tempo e modi per riempire la città di manifesti con una “X” enorme al centro.
Da questo punto di vista l’unico animale televisivo nel vero senso del termine è Carlo Conti: un ex dj che in maniera graduale ha conquistato prima lo spazio precedente al telegiornale delle 20, poi quello della prima serata. In silenzio, con garbo, mai volgare senza forse nemmeno dare nell’occhio. A tratti un approccio televisivo molto cattolico. Nel corso degli anni Carlo Conti, oltre alla presenza televisiva da conduttore, ha cercato di sviluppare però nuovi format, nuove tipologie di programma sperimentando moltissimo prima di arrivare ad una forma e fisionomia definitiva.
Gli spettacolo serali (o al venerdì al sabato) sulle “50 Canzonissime”, non erano solo un diversivo per coprire una serata libera sul primo canale tra una canzone e l’altra. Ma e il primo ed abbozzato tentativo di arrivare ad un formula sintetica per unire in un unico contenitore le diverse mode e passioni musicali degli ultimi 50 anni. Una carta vincente perché avrebbe portato ad uno spettacolo del tutto interclassista e capace di unire davanti al teleschermo nonni, padri e figli. Un’intuizione che ebbe come risultato definitivo la nascita de “I Migliori Anni”, attualmente uno dei format made in Italy più venduti al mondo.
Conti ha fatto tentativi analoghi col concetto di “imitazione”: pensando di poter arrivare ad un programma televisivo sugli imitatori si è lanciato prima in una formula più tradizionale come “Gran Premio Gocce d’Acqua” in cui semplicemente partecipavano comuni cittadini molto simili a vip e personaggi pubblici, per poi comprendere che in realtà la forza del successo non sta tanto nell’imitazione in se (per intendersi “Si, si, è proprio lui” con Luisa Corna nel 2002) ma nella sua declinazione: “Tale e Quale Show” oggi risulta essere uno dei programmi di maggior successo della tv italiana, e non certo perché i concorrenti somiglino fisicamente ai personaggi che devono interpretare!
Tralasciando il tema del reality ad ambientazione storica (strutturalmente difficile da realizzare come rappresentò plasticamente il flop di “Ritorno al Presente” con tanto di Giulio Andreotti tra i giurati) e quello dei raccomandati (format di successo, a differenza degli altri, al primo colpo ma tralasciato negli ultimi anni dopo la staffetta Conti-Pupo), in questo momento è verosimile credere che la parabola di “Si può fare” potrà assumere una fisionomia analoga a “I migliori Anni” e “Tale e Quale Show”: la prima sistemazione di un prodotto che, dopo una fase di sperimentazione, potrà spiccare il volo se si apportano le necessarie modifiche. Proprio per questo criticabile, ma non biasimabile.
Ecco perché Carlo Conti oggi è non è solo l’unico che si sforza di fare televisione. Ma è l’unico che si sforza di programmarla. Non sarà stato forse “un grande giorno per l’Italia”, ma il giorno della notizia della sua conduzione di Sanremo 2015 l’impressione era quella di aver a che fare con un atto dovuto.