L’indipendenza scozzese può generare immaginari degni di Braveheart, una naziona fiera che riguadagna la propria sovranità dopo secoli di sottomissione a Londra, perlomeno questo è quanto cercano di veicolare i fautori del Sì in Scozia e in altre aree, dove si spera che questo referendum ne produca altri, in Catalogna o in Veneto. Vi è però tutta una serie di conseguenze, sui cui sempre più la campagna elettorale si sta concentrando: l’economia
La Scozia è parte integrale del Regno Unito, e nonostante non si possa quindi trattare come un Paese sovrano, si può individuare il suo reddito e i suoi dati principali macroeconomici. Il Valore Aggiunto Lordo (GVA, Gross Value Added) è il PIL escludendo sussidi e tasse, e la Scozia è l’area del Regno Unito con il valore più alto dopo Londra e il Sud Est, Edimburgo e Aberdeen (centro dell’industria petrolifera), ricorda l’Economist, sono tra le poche città con stipendi in crescita.
Tuttavia il rapporto deficit/PIL di una eventuale Scozia indipendente sarebbe uno dei più alti in Europa, come fa notare l’Economist stesso:
Si noti il paragone con la Grecia, e soprattutto con l’Italia, il grande Paese con il deficit minore.
Dove starebbe quindi il trucco, il rimedio per mantenere questi livelli di alti stipendi, con un deficit del genere che richiederebbe pesanti manovre di rientro?
E’ il caro vecchio oro nero. Il petrolio. Non è un mistero che il leader indipendentista Salmond miri a fare della scozia una nuova Norvegia, ovvero un Paese che goda della rendita (alimenta un fondo sovrano enorme fornita dallo sfruttamento dei pozzi del Mare del Nord, che come vediamo dalla seguente cartina appartengono in grandissima parte proprio alla Scozia.
Ma è tutto oro (nero) quel che luccica? Come riporta Forbes mentre la Norvegia, con una popolazione simile alla Scozia ha raccolto 40 miliardi dagli idrocarburi nel 2013, il Regno Unito 10,8, il 40% in meno del 2012, e l’Institute for Fiscal Studies stima in futuro ci sia un ulteriore calo verso i 5,5 miliardi per il 2016-2017, a causa dei livelli di produzione minori e dell’esaurimento di molti filoni. Tra l’altro lo smantellamento di oleodotti e cavi dal Mare del Nord alla terraferma sarebbero pure costosi ed anch’essi da calcolare, la Scozia dovrebbe pagare almeno metà dei 50 miliardi stimati da oggi al 2022 a questo scopo, impiegando così buona parte delle risorse guadagnate con il petrolio.
Non potendo contare su fonti così poco prevedibili la Scozia dovrà basarsi sulla forza della propria economia, e qui arrivano i guai, perchè a dispetto dei dati sul deficit, Salmond e lo Scottish National Party si sono impegnati in realtà per aumentare la spesa sociale, per dare un ruolo maggiore allo Stato rispetto alla tendenza liberista inglese. Non è un segreto che le pulsioni nazionaliste della Scozia siano aumentate di molto con l’arrivo di Margaret Thtacher e delle sue politiche a Londra dagli anni ’80, politiche che hanno provocato un graduale spostamento a sinistra della Scozia, il cui tessuto industriale fu colpito duramente dalle privatizzazioni e dai cambiamenti dell’epoca thatcheriana. Ecco che una indipendenza scozzese, è il messaggio dei nazionalisti, vorrebbe dire non dover più sottostare agli odiati conservatori liberisti e ai loro governi.
Il punto è che l’economia scozzese è meno competitiva e meno diversificata di quella inglese, l’Economist misura un 11% in meno di produttività, e una produzione sbianciata fortemente verso l’export verso il resto del Regno Unito, come mostrato nel grafico di seguito:
E non bastano certo gli aumenti delle esportazioni di whiskey e salmone verso Cina e mercati emergenti a compensare le cose. Tanto più che altre colonne dell’economia scozzese, i servizi finanziari, minacciano seriamente di rilocalizzare le proprie attività in Inghilterra in caso di indipendenza della Scozia: Alliance Trust e Standard Life hanno annunciato che sstanno aprendo aziende in Inghilterra da cui gestire il proprio business, ovvero fondi risparmio, fondi pensione e altri servizi finanziati mentre la Royal Bank of Scotland ha minacciato di rilocalizzarsi, e tutte per lo stesso motivo, l’incertezza dovuta alla nuova moneta scozzese, ai costi, soprattutto in tema di tassi di interesse, che quasi sicuramente sarebbero più alti, alla politica fiscale, che dalle parole del SNP non sembra annunciarsi molto responsabile. Così multinazionali che operano sul mercato globale non se la sentono da dipendere dalle fortune o sfortune di una piccola nazione dalla stessa popolazione della Slovacchia, fa notare Forbes.
Salmond ha dichiarato l’intenione di mantenere la sterlina, così come la monarchia, e soprattutto la Banca d’inghilterra come prestatore di ultima istanza, qualora vi fosse bisogno di un bail-out, un qualche salvataggio, come nel 2008-2009. La Bank of England, nelle parole del suo governatore Carney, ha fatto però notare che una tale condizione potrebbe sussistere solo se il Paese che volesse rimanere in tale unione monetaria fosse disponibile a demandare buona parte della sovranità e della politica fiscale, del resto una unione monetaria senza cessione di sovranità è proprio l’esempio dell’eurozona che chiunque ora vuole evitare. Peccato che i fautori dell’indipendenza scozzese abbiano voluto il referendum proprio per aumentarla, questa sovranità.
Si tratta dell’impossibile tentativo di avere la botte piena e la moglie ubriaca, dipendere dal e utilizzare l’ombrello economico e finanziario della vecchia madre patria ma non acettare la sua sovranità. Anche l’adozione della sterlina non potrà quindi esserci, non automaticamente, perlomeno, e tantomeno l’adesione all’Unione Europea, se non dopo diversi anni.
La Scozia dovrebbe quindi cavarsela sulle proprie gambe, abituandosi ad essere un piccolo Paese periferico, con aziende in fuga, e manovre pesanti per rientrare dal grande deficit che erediterebbe. Il pericolo è quello di una crisi economica intensa e probabilmente inaspettata, per cui i suoi abitanti non sono preparati. Una Grecia a latitudini inattese.