Iraq: terza guerra del Golfo?
L’operazione militare contro postazioni Isis in Iraq è cominciata. A riferirlo Chuck Hagel, Segretario della Difesa Usa. Il capo del Pentagono ha precisato che “i raid Usa sulle postazioni Isis in Iraq sono stati 167”.
Sembra che abbiano riguardato zone a sud della capitale, non si conosce la natura degli obiettivi colpiti. Grazie ai bombardamenti, Baghdad, dovrebbe avere il tempo di riorganizzare le proprie forze sul campo per poi scagliarsi contro gli estremisti del Califfato.
“Far retrocedere e infine distruggere l’Isis” questa la strategia di Obama ma sempre nell’ottica dello slogan “no boots on the ground”, cioè nessun intervento di truppe di terra americane in Iraq. Tuttavia nelle ultime ore si fanno avanti delle indiscrezioni che prefigurerebbero uno scenario completamente diverso.
Il Generale Martin Dempsey, presidente del Joint Chiefs of Staff, davanti alla Commissione Forze Armate del Senato ha dichiarato che potrebbe essere necessario schierare reparti di truppe speciali americane al fianco dell’esercito iracheno e dei curdi peshmerga. Dempsey ha aggiunto che anche altri generali hanno chiesto al Presidente l’invio di consiglieri militari (close combat advisors) da affiancare alle truppe impegnate nei combattimenti.
Nonostante Obama voglia tenere l’esercito lontano dal pantano iracheno, lasciato meno di tre anni fa, potrebbe cambiare idea, almeno così sembra pensare Dempsey. 1600 unità militari Usa (soldati e consiglieri) già si trovano in Iraq: anche se non coinvolti nei combattimenti, sono autorizzati a difendersi.
Nodo ancora da sciogliere l’intervento in Siria anche se, sempre Hagel, ha detto che i raid Usa “presto colpiranno i santuari siriani dello stato islamico, i centri di comando come quelli logistici, oltre alle infrastrutture”.
Da parte americana viene continuamente affermata l’indisponibilità a collaborare con Bashar Al Assad per cui il Congresso dovrebbe approvare il progetto di Obama che prevede l’addestramento e l’equipaggiamento di 5000 ribelli siriani da schierare contro l’Isis: anche se molti hanno evidenziato il pericolo che le armi fornite potrebbero finire nelle mani proprio dell’Isis o di altri gruppi jihadisti.
Il rapporto costi/benefici di questa azione “indiretta” sta facendo propendere una parte della società americana per un intervento più aggressivo ma almeno sotto il diretto controllo di Washington, soprattutto adesso che il legame tra Isis e Al Qaeda comincia a delinearsi più chiaramente.
Lo scorso Febbraio Al Qaeda aveva negato che l’Isis fosse “un ramo dell’organizzazione”, in quell’occasione Zawahiri aveva invece confermato il proprio appoggio ad altre frange dei ribelli siriani, Jabhat al Nusra e Ahrar al Sham, considerate più moderate rispetto all’Isis e in sostanza avversarie di quello che ancora si faceva chiamare esercito islamico dell’Iraq e del Levante.
Aaron Y. Zelin, dell’Istituto per la Politica del Vicino Oriente di Washington, ha scritto recentemente che “i due gruppi sono in guerra aperta per la supremazia del movimento jihadista globale”: un’analisi confermata da un recente attentato mortale subito da i vertici di Ahrar al Sham a quanto pare organizzato proprio dall’Isis. Fino a poco tempo fa gli esperti parlavano quindi di rivalità tra Al Qaeda e Isis e cosi si poteva giustamente sostenere almeno fino a ieri.
Sugli account Twitter della branca Maghrebina di Al Qaeda (AQIM) e di quella yemenita (AQAP) è stato pubblicato un appello, rivolto sia al Fronte al Nusra sia all’Isis, che invitava “i nostri fratelli” a “smettere di uccidersi tra di loro” e “affrontare insieme gli americani e la loro coalizione diabolica”. Resta da chiedersi, quindi, se l’intervento americano in Iraq e in Siria non possa determinare l’unione delle due maggiori formazioni jihadiste.