Nymphomaniac, tra sacralità della carne e mediocrità umana
“Forse l’unica differenza tra me e gli altri è che io ho preteso di più dal tramonto, colori più spettacolari quando il sole arriva all’orizzonte, forse è questo il mio unico peccato”. Sceglie queste parole Joe, la protagonista di Nymphomaniac, per presentarsi al pubblico in apertura del film. Una dichiarazione d’intenti così poetica e lieve da sembrare scritta sul velluto, per poi deflagrare rapidamente in un’esplosione vitalistica incontrollabile.
Il film in questione è l’ultimo lavoro, discusso e straniante, del regista danese Lars Von Trier. Il cast annovera tra gli attori Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård, Stacy Martin, Shia Labeouf, Christian Slater e Uma Thurman.
La storia nella storia ha inizio con un anziano uomo, Seligman (Stellan Skarsgård) che, uscito per fare la spesa, trova riversa al suolo una donna tumefatta e insanguinata di nome Joe (Charlotte Gainsbourg). Lei rifiuta tassativamente di chiamare sia la polizia che i soccorsi, e acconsente soltanto alla proposta di Seligman di condurla a casa per medicarla e rifocillarla. La donna gli rivela quindi di essere una ninfomane e inizia a dipanare, come una Sherazade della vulva (definizione di Natalia Aspesi), la complessa e tumultuosa matassa della sua vita.
Il pubblico intraprende così un viaggio nel passato di Joe, partendo dall’infanzia divisa tra la precoce scoperta del proprio corpo e le passeggiate con l’adorato padre (Christian Slater), che le regala uno sguardo sulla realtà evocativo e ricco di suggestioni. Poi l’adolescenza, che scorre come un fiume in piena, traboccante di esperienze e sensazioni, fino a sfociare in un’esistenza emotivamente mutilata e sessualmente variegata. Una storia, quella della donna, scandita nei suoi passaggi cruciali, dal ricorrere sistematico e quasi rituale di una serie di coincidenze che, ogni volta, sembrano volerla riportare al momento in cui le sfrenate danze hanno avuto inizio.
Seligman segue il racconto di Joe con attenzione e partecipazione, suggerendole un punto di vista sui fatti più ampio e certo inatteso; l’anziano è in grado di mettere in relazione ciascun aneddoto della sua vita sessuale con elementi di natura filosofica, musicale o addirittura matematica. Tuttavia, come preannuncia il trailer della seconda parte (in sala dal 24 aprile), con cui si chiude il film, la storia della donna sembra voler sfuggire a ogni genere di edulcorazione e levigatezza …
Nymphomaniac, che conclude la trilogia sulla depressione di Lars Von Trier, iniziata con Antichrist e proseguita con Melancholia, è suddiviso in capitoli, come già per altri film del regista danese. Il dialogo tra Joe e Seligman fonde registro alto e registro basso, o, come ha rilevato qualcuno, «le secrezioni e le riflessioni, la pesca con l’ebraismo, non per confondere le acque ma per tentare di tracciare (esasperandolo anche sul piano della varietà di stili messi in campo) un percorso nella sua visione del sesso».
Il film è disseminato di citazioni, frutto della multiforme cultura di Lars von Trier: tra queste, la spiegazione del tritono (l’accordo si-fa, comunemente chiamato intervallo del diavolo) e la sorprendente scena in cui le tre voci del Cantus Firmus di Johann Sebastian Bach diventano la metafora attraverso cui illustrare le molteplici dinamiche sessuali che hanno al centro Joe. Un passaggio questo, in cui il regista calibra coraggiosamente grottesco e poesia. L’episodio della perdita della verginità della donna è invece “tradotto” da Seligman nella Sequenza di Fibonacci, matematico pisano medievale. Non mancano neanche i richiami letterari, tra cui quello a Edgar Allan Poe e a Il pescatore perfetto di Walton Izaak.
Nella storia di Joe la figura del padre ha un ruolo importantissimo: così, la sequenza dell’agonia e della morte dell’uomo è affidata a un bianco e nero cupo e intenso, in bilico tra l’immaginifico e il documentaristico. Lui è l’unica persona per cui, probabilmente, Joe ha provato qualcosa di simile all’affetto, così la malattia dell’uomo la spinge a comportamenti tanto viscerali quanto dissonanti. La nostalgia per la perdita di questa figura percorre come un filo rosso l’opera di Von Trier, e non solo: il regista infatti non ha mai conosciuto il padre naturale. In Nymphomaniac l’istanza salvifica incarnata dal genitore si esprime però attraverso una sorta di “eredità” che spetta a Joe, e che sembra essere l’unica cosa capace di darle sollievo nei momenti più difficili.
Notevole è anche il monologo di Uma Thurman, che qui interpreta la moglie abbandonata che irrompe, furibonda ma surrealmente composta, in casa di Joe per mostrare ai tre figli “il letto della puttana”.
Il film ha suscitato un certo clamore, ancor prima di giungere in sala, tra quanti, forse in modo un po’ pruriginoso, hanno polemizzato con il film per l’estrema dovizia di particolari con cui viene dissezionata la vita sessuale di Joe. Alcuni hanno accusato il regista danese di esser ricorso alla pornografia per il narcisistico gusto di scandalizzare e far parlare di sé. Tuttavia, sebbene chi scrive non abbia particolarmente apprezzato la pellicola soprattutto per il tono con cui la storia viene raccontata e per il fatto che la stessa finisce per risultare da un certo punto in avanti piuttosto prolissa, non sarebbe onesto ridurre Nymphomaniac a una giustapposizione di amplessi e organi genitali. L’anelito di Von Trier a esplorare la vicenda restituendone la sostanza più oscura, nella sua complessità e duplicità, è infatti trasparente, indipendentemente dal fatto che si ritenga o meno l’operazione complessivamente riuscita. Perciò, non si può non riconoscere una certa dose di coraggio a quanti, scegliendo di vedere il film, vorranno intraprendere questa specie di discesa agli Inferi guidati da Joe.