La crisi economica non si ripercuote solo sugli indici del PIL, del debito, e sulle statistiche, ma in modo più diretto e spesso atroce sulle vite delle persone, e sulla disponibilità dei mezzi più elementari, prima fra tutte l’abitazione
Sono state più di 73 mila le sentenze di sfratto in Italia nel 2013, in costante aumento ogni anno negli ultimi 5 anni. Negli ultimi 3 anni sono state 205.021, nei tre anno precedenti (dal 2008 al 2010) furono circa 157.000: gli sfratti nel triennio sono cresciuti in totale di circa 50.000 sentenze. E se confrontiamo con il 2003 abbiamo un vero e proprio raddoppio. Non è più un fenomeno relegato solo alle aree urbane, in particolare i quartieri più poveri e degradati, ma segue la gravità della situazione occupazionale italiana, così spalmata sul territorio che i primi posti per le province coinvolte sono:
Sono tutte aree in teoria ricche: la culla della piccola e media impresa che non a caso ha subito maggiormente la crisi e ha dovuto licenziare più dipendenti.
Lo si vede anche dai dati degli sfratti per famiglia per regione:
In testa vi sono l’Emilia Romagna, la Toscana, il Lazio, il Piemonte.
Dati che negli ultimi 10 anni sono peggiorati sensibilmente, come vediamo di seguito:
Che si tratti in grandissima maggioranza di sfratti per morosità e affini e legati alla crisi occupazionale lo dice l’indagine dell’Unione Inquilini, la stessa che ha fornito le statistiche precedenti:
C’è inoltre un certo equilibrio tra capoluoghi e province, con prevalenza dei primi:
È molto interessante incrociare questi dati con gli altri sulla crisi economica. Sappiamo che sono stati operai e artigiani, e in generale piccoli imprenditori e lavoratori autonomia a subire maggiormente la crisi, e più il settore manifatturiero che quello dei servizi. Quindi non si è trattato di quelle grandi aree urbane come Milano dove son presenti grandi imprese dei servizi i cui dipendenti ad alta specializzazione hanno decisamente subito meno contraccolpi, nè quelle aree già depresse del Sud, dove tra l’altro si concentra maggiormente la tradizione di vivere in famiglia e in famiglie allargate, ma di regioni, come Piemonte o Emilia Romagna ad alta vocazione manifatturiera, con alte concentrazione di operai e titolari di piccole imprese, spesso immigrati da altre aree, che una volta perso il lavoro con maggiore frequenza di altri lavoratori, si sono ritrovati nell’impossibilità di pagare l’affitto delle case non di proprietà.
È una Italia di mezzo poco raccontata dai media proprio perché non sono giovani, sotto i riflettori per l’alta disoccupazione giovanile, ma per fortuna con appoggi abitativi nella famiglia di origine, né pensionati o dipendenti sindacalizzati, che riescono a fare sentire la propria voce in modo più organizzato.
Quello che fa pensare è la corrispondenza di questo trend di aumento degli sfratti con i record tutti italiani (e spagnoli a dire il vero) nelle case vuote. Conosciamo la passione degli italiani per il mattone e le seconde e terze case, ma vediamo i dati.
Le case sfitte in Italia risultano essere:
– 3 milioni per Halldis (società di Windows in Europe)
– 2,7 milioni per l’ISTAT
– 2 milioni per la CGIL
– 2 milioni per il Guardian
Se la Spagna ha il record europeo con 3,4 milioni, l’Inghilterra ne ha solo 700 mila.
Certamente molte sono le cause, da quelle più economiche a quelle culturali. Un tempo la tassazione era più favorevole, assecondando il favore che gli italiani riservano alla rendita rispetto al lavoro, e vi era la convinzione, in alcuni periodo supportata dai fatti, che si trattava di un investimento, visto che la casa si rivalutava e avrebbe fruttato una buona plusvalenza al momento di venderla, magari per comprare la casa ai figli. D’altra parte vi è la tradizionale sfiducia verso il potenziale inquilino, la paura di affidare a sconosciuti un beneverso cui vi è sempre stato un legame più profondo che altrove. Non ultimo, conta il fatto che l’esecuzione degli sfratti in Italia è molto lunga e costosa anche per il proprietario.
Eppure Halldis ha anche calcolato che si potrebbe generare un fatturato del settore extra alberghiero di 16 miliardi di euro rispetto ai 6,6 miliardi attuali e il ricavo lordo potenziale per ogni famiglia che mettesse un immobile a disposizione ammonterebbe a 10.000 euro annui.
Sarà la storia a dire se gli italiani si decideranno ad affittare i propri immobili spontaneamente o ci sarà bisogno di altri “incentivi”, come quella ideata dal Center for Economic and Policy Research, che prevede una tassazione ulteriore dell’1% oltre alla tassazioen già presente, che per le seconde case tocca già il 2%, per mettere su mercato più case e abbassare i canoni di affitto. Sempre che l’Italia presenti la stessa elasticità di prezzi degli USA, cosa non scontata.
L’immissione sul mercato di più case, anche per ovviare alle tasse crescenti, sarebbe già un passo verso affitti più bassi e un maggiore accesso all’abitazione per i redditi bassi, ma rimane la discrepanza tra l’Italia e l’estero anche per le politiche abitative, in Italia solo il 6% delle costruzioni è di edilizia residenziale pubblica, il 18% in Francia e il 21% in Germania, secondo Confabitare. Sono 600 mila le persone in attesa di una casa popolare, e solo in media un 2-3% la ottengono ogni anno.
Il Decreto Lupi, aumenta il fondo per la morosità incolpevole, che passa da 50 a 100 milioni di euro, ma nel contempo esclude per 5 anni la possibilità di partecipare a bandi per gli alloggi pubblici, le famiglie che hanno occupato abusivamente una casa, e vieta la residenza e l’allaccio delle utenze, acqua luce e gas a chi è entrato abusivamente in un alloggio dismesso o in fabbricati abbandonati.
Quello delle occupazioni è in effetti un nuovo capitolo della vicenda, se a Milano e Roma ci sono sempre stati gruppi organizzati, come Action Diritti in Movimento, il fenomeno sta nascendo anche altrove, nelle città di provincia, che come già visto sono quelle più colpite dagli sfratti, città come Brescia, Bergamo, Pisa, Benevento, Livorno, Firenze, e in cui l’edilizia popolare da alcuni decenni è stata come abbandonata.
E non è certo una sorpresa verificare che l’Italia è agli ultimi posti tra i 28 Paesi UE per spesa sul PIL per l’edilizia pubblica, essendo invece la prima per voci come le pensioni. Nel tempo era stata fatta una scelta precisa sui segmenti da favorire come spesa sociale, peccato che i fatti hanno dimostrato che era sbagliata.