“Ogni tanto guardavo video porno su Internet con mia moglie”. E’ una delle risposte di Massimo Giuseppe Bossetti – il muratore di Mapello accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio – ai magistrati che lo interrogano, oggi finita sui quotidiani di mezza Italia. E non basta: “Con mia moglie facevamo l’amore due, tre volte alla settimana”, risponde Massimo Bossetti al magistrato che gli chiede conto dello stato dei rapporti con la moglie. Ed anche questa dichiarazione finisce riportata, parola per parola, sui giornali e rimbalzerà nelle prossime ore e, poi, nei mesi che verranno in televisione e online dappertutto.
Non è la prima volta – e certamente non sarà l’ultima – che fatti ed abitudini personalissime della vita del muratore di Mapello e della sua famiglia finiscano sbattuti sui giornali e dati in pasto all’opinione pubblica. Sembra che il buon senso, la deontologia professionale, le regole e i richiami del Garante per la privacy Antonello Soro, non possano davvero nulla contro certe certe derive iper-informative o, forse, più semplicemente, voyeuristiche.
Forse qualcuno pensa che la gravità ed odiosità del crimine del quale il muratore di Mapello è accusato giustifichino la ripetuta violazione del diritto alla privacy di Bossetti e dei suoi familiari. O forse, peggio ancora, qualcuno ritiene che raccontare dettagli intimi, non costituenti fatti illeciti – né, peraltro, indici sintomatici di chissà quale perversione – irrilevanti, almeno per l’opinione pubblica, aiuti ad aumentare il numero dei lettori o a fare audience in Tv. O forse, ancora, c’è qualcuno che pensa che fare cronaca significhi raccontare ogni più piccolo dettaglio del quale si viene a conoscenza senza preoccuparsi di distinguere tra fatti di interesse pubblico e fatti privi di tale interesse.
E’ difficile dire quale sia la molla che nel caso delle indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio – e, per la verità non solo di questo – determina una così prepotente deriva lontano dalla buona informazione ma quale che sia è importante non far passare il principio che tutto questo è normale, naturale o, peggio ancora, giusto in nome della libertà di informazione o del diritto di cronaca.
Non è così e, forse, sarebbe opportuno che il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti provasse a far sentire la sua voce dando un senso – lo dico da iscritto all’Ordine – alla sua esistenza e che altrettanto facesse – alzando la voce visto che i primi richiami sembrano caduti nel nulla – il Garante per la privacy. E’ una questione seria che riguarda tutti o, almeno, tutti quelli che credono che l’informazione sia l’anima della democrazia e vorrebbero vedersi garantire, negli anni che verranno, la libertà di parola contro ogni tentativo di limitarla o restringerla.
E’, infatti, evidente che peggiore diventa la qualità dell’informazione e più, inesorabilmente, cresce la richiesta – specie in un contesto come quello online in cui ciò che si scrive è persistente nel tempo e pervasivo nello spazio – di limitare, restringere, perimetrare le libertà ed i diritti di chi vuol farne. La cattiva informazione è la peggiore e più pericolosa nemica della libertà di informazione perché finisce con il legittimare, giustificare, rendere politicamente sostenibili gli attacchi di quanti – non sempre per nobili ragioni – vogliono semplicemente che ci sia meno libertà di informazione e di cronaca.
Prendiamo, ad esempio, il caso – al centro delle cronache di mezzo mondo nelle ultime settimane – del cosiddetto diritto all’oblio, in nome del quale i Giudici della Corte di Giustizia dell’Unione europea hanno, sostanzialmente, stabilito che i grandi motori di ricerca devono disindicizzare le pagine contenenti dati personali, ogni qualvolta l’interessato glielo chieda. E’ un principio pericoloso che minaccia il futuro della libertà di informazione ed il diritto alla storia, affidando ad un soggetto privato il compito di essere arbitro di ciò che, oggi e domani, troveremo online e potremo leggere.
E’ ovvio, però, che quando domani il muratore di Mapello, o la moglie o, magari i loro figli – che di questa storia sono, comunque, vittime innocenti – chiederanno di disindicizzare le pagine degli articoli di giornale nei quali la vita sessuale dei coniugi Bossetti è passata al setaccio e data in pasto all’opinione pubblica, sarà impossibile difenderne la permanenza online e l’indicizzazione in nome del diritto di cronaca o della libertà di informazione.
Rimozione dopo rimozione e disindicizzazione dopo disindicizzazione di articoli e contenuti che, semplicemente, non avrebbero mai dovuto essere pubblicati nella forma in cui sono stati pubblicati, il risultato sarà che ci si persuaderà che la disindicizzazione e la rimozione di un contenuto – anche quando disposti da un soggetto privato ed al di fuori di un giusto processo – sono l’unica risposta possibile a certe derive mediatiche che minacciano prepotentemente la privacy dei cittadini. A quel punto, però, sarà tardi per difendere la libertà di manifestazione del pensiero e sarà inutile cercare di tracciare una linea di confine tra la buona informazione e la cattiva informazione.
I principi di diritto – specie quando si chiede di applicarli a soggetti privati e sovrannazionali – sono inevitabilmente colpi di accetta e non tagli sottili da bisturi. E’ per questo che derogare a regole e principi della buona informazione significa minacciarne la sopravvivenza e renderne, giorno dopo giorno, più difficile la difesa.