Il termine “Dream Team” viene associato oggi dalla maggioranza degli sportivi a quella meravigliosa squadra di pallacanestro che calò nel 1992 sulle olimpiadi di Barcellona come i barbari del nord sul Sacro Romano Impero d’Occidente, spazzando via ogni avversario e riscrivendo la storia senza se e senza ma. Era la prima occasione in cui gli americani infatti potevano permettersi di sdoganare i loro professionisti NBA, e non più solo le matricole dei college che stavano iniziando a prenderle abbastanza regolarmente dalle squadre europee. Russia in primis. Gli americani si permisero il lusso di portarne solo 11 più un collegiale (Christian Laettner) perché, come ironizzò qualcuno, ci doveva essere uno che portava le borse in spogliatoio per gli altri. Fu la più grande e mai più eguagliata squadra di basket di tutti i tempi, tanto che nelle edizioni successive si cominciò a smettere di chiamare la formazione statunitense Dream Team, anche per il fatto che ad un certo punto di dream iniziarono ad avere davvero poco, perdendo clamorosamente in più di un’occasione. Altra storia, di cui parleremo forse in altre occasioni. Se però a est dei Carpazi avessero avuto un pizzico di fantasia in più, propensione al marketing più spiccata, e soprattutto una facilità espressiva di più facile comprensione (il cirillico può presentarsi ostico per i neofiti rispetto all’inglese), probabilmente di “Squadra da sogno” avremmo sentito parlare molti anni prima. I sovietici infatti disponevano di una squadra di hockey su ghiaccio quasi imbattibile, che dal 1954 e il 1991 riuscì a conquistare sette delle nove edizioni delle olimpiadi disputate e ben ventidue dei trentuno campionati del mondo (che si svolgevano ogni anno esclusi quelli in cui si tenevano le olimpiadi) finendo sempre (SEMPRE) sul podio con la sola eccezione del 1962 in Colorado, quando per ragioni meramente politiche non si presentarono alla competizione. Ventinove vittorie in trentasette anni. Se capitasse in Italia col calcio saremmo probabilmente il popolo con meno pensieri della storia dell’umanità.
Questo solo per avere un quadro generale del perché, quando la federazione americana di Hockey nel 1979 iniziò a fare alcuni sondaggi per affidare la selezione statunitense ad un nuovo allenatore, le prime risposte che si sentì dare furono le stesse che riceve il liceale imbranato che invita la bella di turno al gran ballo della scuola: picche. Le olimpiadi si giocavano in casa, a Lake Placid, contea di Essex nello stato di New York, e c’era il timore di fare una brutta figura davanti al proprio pubblico. Era effettivamente un rischio plausibile, in quanto non solo la squadra di casa non veniva assolutamente considerata tra le favorite, ma tra le dodici partecipanti era pronosticata al settimo posto, dato che non poteva schierare giocatori professionisti ma soltanto ragazzi del college. Attorno all’opzione numero quattro o cinque era segnato però il nome di Herbert Paul Brooks, per tutti Herb. Fresco vincitore del titolo NCAA per la terza volta in sei stagioni con i suoi Minnesota Golden Gophers, Brooks accettò subito la proposta della federazione, con la sola clausola di poter scegliere in completa autonomia i giocatori da portare nella squadra. Il quarantaduenne burbero allenatore aveva, rispetto agli altri colleghi, sicuramente una motivazione in più. L’allenatore dell’epoca lo aveva selezionato per la squadra olimpica del 1960 (era stato infatti anche un eccellente giocatore) salvo poi tagliarlo all’ultima selezione prima dell’inizio dei giochi. Tre settimane dopo il giovane Herb stava sul divano di casa con il padre a guardare i suoi compagni alla televisione, mentre vincevano la medaglia d’oro. Fu probabilmente quella la spinta che portò Brooks ad accettare il lavoro, cercando quel successo che gli era sfuggito anni prima per un soffio.
La sua impostazione di gioco fu quanto mai complessa, visto che per cercare di superare i sovietici sviluppò uno stile che mescolava quello canadese e americano e quello più veloce europeo. Al centro di tutto il progetto dovevano esserci però due elementi di estrema semplicità. Il gioco di squadra e la resistenza fisica. Una delle armi in più che secondo il coach avevano i russi, infatti, era la maggior prestanza e freschezza nel terzo e ultimo periodo di gioco, quando invece le avversarie inesorabilmente calavano (e perdevano). Allenare questo aspetto fu relativamente semplice, per quanto anche incredibilmente duro e faticoso per i ragazzi, con allenamenti massacranti anche i giorni che precedevano le gare decisive. Allenare la collaborazione fu decisamente più complesso, soprattutto a causa dell’estrema rivalità che correva tra diversi membri della squadra. Cosa tra l’altro ampiamente preventivabile se tra i prescelti per far parte del gruppo si inseriscono giocatori appartenenti a due college rivali fino all’estremo come Minnesota e Boston. Il coach lo sapeva, ma tenne duro.
Fu probabilmente lo scoglio maggiore che il gruppo si trovò a superare. E come se non bastasse, a pochi giorni dall’inizio dei giochi i russi strapazzarono gli americani in amichevole per 10-3. Le stelle della squadra erano il capitano Boris Mikhailov in avanti e Vladislav Tretiak in porta. Due nomi che probabilmente oggi non dicono nulla se non ai più appassionati ma, per rendere il paragone comprensibile, immaginate di avere Holly e Benji insieme nella stessa squadra, e vi farete un’idea abbastanza realistica della situazione (se non conoscete chi sono Holly e Benji meglio che iniziate a farvi una vera cultura…). C’era pochissima fiducia intorno al gruppo, ma nel girone eliminatorio gli U.S.A. ottennero quattro vittorie ed un pareggio, battendo anche squadre molto più quotate di loro come la Cecoslovacchia (7-3). Questo risultato gli permise di accedere al girone delle medaglie e di attirare sempre più l’attenzione di un pubblico che dalla sorpresa passò all’entusiasmo nel giro di pochissimi giorni (tutto il mondo è paese, dopotutto). Nell’altro girone inutile dire che i sovietici spazzarono letteralmente via gli avversari.
La formula di allora non prevedeva un tabellone play off, ma appunto un girone finale in cui le due migliori classificate dei due gironi precedenti si sfidassero l’una con l’altra (U.S.A., Russia, Svezia e Finlandia) stilando alla fine una classifica a punti. La prima giornata mise di fronte di nuovo le due rivali e bisogna ricordare come quelle partite si giocassero in un contesto molto particolare. Erano infatti gli anni della guerra fredda, e ogni occasione era buona per gettare all’altra nazione il guanto di sfida. Tuttavia l’entusiasmo generato dalle belle prestazioni del primo girone non avevano convinto proprio tutti tutti. Sul New York Times infatti, uno -se non IL- giornale più popolare d’America, l’editorialista Dave Anderson scrisse “A meno che il ghiaccio non si sciolga, o a meno che la squadra americana non compia un miracolo come fece quella del 1960, ci si aspetta che i russi vincano la medaglia d’oro per la sesta volta negli ultimi sette tornei”.
Se come editorialista il buon Dave aveva avuto intuizioni ed uscite decisamente migliori, come menagramo raggiunse sicuramente lì il culmine della sua carriera. I sovietici infatti andarono per tre volte in vantaggio, e per tre volte vennero rimontati dai ragazzi americani in un tripudio generale. A dieci minuti dalla fine poi il capitano a stelle e strisce, Mike Eruzione, segnò un clamoroso gol del vantaggio. Immaginate la bolgia, ma immaginate anche dover resistere per dieci lunghissimi minuti (che nell’hockey sono un’eternità) all’assedio sovietico. Fu una sofferenza, tanto che a undici secondi dalla fine, dopo che il portiere americano Craig aveva compiuto l’ennesima parata decisiva, il commentatore della ABC, Al Michaels, iniziò a scandire i secondi mancanti ad alta voce, chiudendo con una frase che è passata alla storia: “Do you believe in miracles? Yes!” (Credete nei miracoli? Sì!). Fu un tripudio per tutti, tranne che per coach Herb. Lui sapeva che il girone non era ancora finito, e seppure in moltissimi ricorderanno anche in futuro quella partita come quella che diede l’oro agli Stati Uniti, mancava ancora la matematica certezza, che arriverà con la vittoria nella partita successiva ai danni della Finlandia, ancora una volta in rimonta nel terzo periodo.
La vittoria americana passò quindi alla storia per tante ragioni, e in un certo senso fu un primo, timido, passo verso l’apertura tra i due blocchi. Dopo Lake Placid furono diversi infatti i giocatori sovietici che iniziarono a giocare nel campionato professionistico d’oltreoceano. Alcuni costretti letteralmente a fuggire dal loro paese per via della guerra fredda, ma intanto lo sport come sempre aveva lanciato una piccola goccia, ed era andato controcorrente.
Dal lontano 1980 di acqua sotto i ponti ne è passata tanta. Oggi i migliori giocatori russi giocano nella NHL come superstar affermate al pari degli americani. Coach Brooks allenò in seguito diverse squadre della NHL (New York Rangers, New Jersey, Minnesota, Pittsburgh dei quali divenne poi direttore del personale nel 2002, una volta chiusa la carriera di allenatore). Partecipò anche ad altre due edizioni delle olimpiadi. Una a Nagano nel 1998 con la squadra francese, e l’ultima nel 2002 a Salt Lake City di nuovo con Team U.S.A. arrivando a conquistare la medaglia d’argento. Caso volle, tra l’altro (e forse non esattamente per caso) che i suoi ragazzi battessero di nuovo la Russia per accedere alla finale esattamente 22 anni dopo il famoso “miracle game”.
Nel 2004 la Disney, avvezza a creare titoli su storie come questa, intrise di quello spirito di rivalsa, riscatto dopo la sconfitta e di andare oltre i propri limiti, ne realizzò un ottima pellicola con Kurt Russel come protagonista nel ruolo di Brooks. Brooks però, pur collaborandovi come consulente attivo, non vide mai quel film. Circa un mese dopo la fine delle riprese, l’11 agosto 2003, il coach moriva in un incidente stradale vicino a Forest Lake, in quel Minnesota dov’era cresciuto e dove da allenatore e giocatore aveva ottenuto i primi grandiosi successi. Pare sia stato a causa di un colpo di sonno per aver guidato tutta la notte, visto che dagli esami non risultarono né alcol né droghe nel suo sangue. Non indossava però la cintura di sicurezza e, dicono, probabilmente se l’avesse allacciata si sarebbe salvato. Coincidenze, destino, fato, o forse l’aver semplicemente esaurito la sua dose di miracoli in quel pomeriggio di 23 anni prima, nessuno può dirlo veramente. Brooks se n’è andato senza mai vedere la sua storia sul grande schermo. Ma, come ci ricordano i titoli di coda, lui non la vide mai. Lui la visse.