Raid contro l’Isis in Siria: il ruolo dell’Arabia Saudita
Dopo i centri nevralgici e i campi di addestramento, nella terza notte di raid aerei contro le postazioni dell’Isis in Siria e in Iraq le bombe sono cadute anche sulle raffinerie nelle mani dello Stato Islamico. L’azione militare degli Usa, supportata da cinque nazioni arabe, ha messo nel mirino anche dodici istallazioni petrolifere modulari dell’Isis, piccole strutture che possono essere trasportate facilmente. Con la vendita di greggio al mercato nero, lo Stato Islamico guadagna milioni di dollari. Insieme agli Usa ci sono Giordania, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita. Il Qatar ha un ruolo di supporto.
L’Arabia Saudita è il principale alleato degli Usa in Medio Oriente e averlo al proprio fianco ha per Washington un rilievo politico notevole. L’Arabia Saudita del resto non è un paese come gli altri. È la culla dell’Islam. È il più grande esportatore di petrolio al mondo. Ha un esercito ben attrezzato. È un paese che gioca da protagonista nello scacchiere del Medio Oriente esercitando una vasta influenza sui paesi sunniti della regione.
L’Arabia Saudita ha fornito armi e denaro ad alcuni dei gruppi che combattono contro il regime di Assad in Siria. Tra questi ci sarebbe stato anche l’Isis, secondo l’accusa fatta mesi fa dall’ex premier Al Maliki. Riad ha negato, ma rapporti di varie intelligence sostengono che soldi sauditi siano arrivati in Siria finanziando tanti e diversi gruppi impegnati nella lotta contro Assad.
Photo by The National Guard – CC BY 2.0
I bombardamenti sulla Siria rappresentano un cambio di strategia. Raramente i sauditi partecipano attivamente a operazioni militari all’estero. Newsweek ha ricordato che negli ultimi anni l’Arabia Saudita non ha mai inviato velivoli militari oltre confine.
Per giustificare la partecipazione agli attacchi dal cielo sono state avanzate anche motivazioni di carattere religioso: Riad infatti ha dichiarato che “studiosi dell’Islam hanno mostrato che le idee e le azioni dell’Isis danneggiano l’immagine dell’Islam e ne deformano il significato, nel tentativo di mostrare che esso si basa sull’omicidio e sulla decapitazione”.
Ma sono soprattutto altre le ragioni che hanno spunto Riad ad affiancare gli Usa: timori per la sicurezza interna, calcoli di politica estera, ma anche l’ambizione di mantenere la leadership nell’area.
In questo modo inoltre Riad rafforza i legami con gli Usa, dove dopo l’11 settembre più di qualche analista aveva messo in dubbio la fedeltà dell’Arabia Saudita e l’utilità di un’alleanza tra sauditi e americani.
Il principe Saud al-Faisal, ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, ha affermato che la lotta contro l’Isis durerà anni e che c’è bisogno dello sforzo di tutti: “Siamo di fronte a una situazione molto pericolosa, dove cellule di terroristi si sono trasformate in eserciti che si estendono in Libia, Libano, Siria, Iraq e Yemen” dove da anni i soldati di Riad sono impegnati in un conflitto sui propri confini.
Riad teme possibili infiltrazioni terroristiche dell’Isis al proprio interno e non vede di buon occhio l’emergere di un soggetto come lo Stato Islamico che si propone di abbattere gli esistenti confini nazionali. Dopo la proclamazione del Califfato Islamico da parte dell’Isis, i sauditi avevano schierato al confine con l’Iraq oltre 30mila uomini.
Immagine in evidenza: photo by Ronnie McDonald – CC BY 2.0