Si è svolto presso la Scuola Normale di Pisa, negli scorsi 5 e 6 settembre, il convegno internazionale Universities, institutions and society (1914-1968): Models of government, careers, teaching and research practices compared, secondo incontro del Seminario nazionale sulla storia delle università promosso dalla Società italiana per lo studio della Storia contemporanea.
La conferenza ha visto la partecipazione, in qualità di relatori o come discussants, di alcuni dei maggiori specialisti del settore provenienti da vari paesi europei, dagli USA, dal Sudamerica e dall’Australia. Essa ha rappresentato un’importante occasione per fare il punto sullo stato degli studi nelle varie aree del mondo della ricerca e per mettere a confronto diverse metodologie e approcci relativi allo studio delle istituzioni accademiche e dello sviluppo della conoscenza negli anni centrali del Ventesimo secolo. L’obiettivo era soprattutto quello di verificare fino a che punto è possibile raccogliere sotto alcuni spunti comuni di massima una serie di azioni di ricerca finora rimaste frammentate, dedicate a singoli sistemi o finanche a singole istituzioni e personalità, nel tentativo di dare alla storia dell’istruzione superiore e della produzione scientifica più vicina a noi l’aspetto organico e unitario che riesce avere, perché più ampiamente dissodata da lavori di ampio respiro, quella relativa al “lungo Ottocento”, il “secolo delle università” dominato dall’influenza globale del modello di studio e ricerca humboldtiano e dal ruolo della scienza e dei suoi istituti nel farsi degli stati-nazione.
Si è trattato dunque di un incontro animato da e rivolto ad addetti ai lavori, ma i cui risultati possono rappresentare un’utile suggestione anche per chi non si occupa professionalmente dello studio storico delle istituzioni culturali contemporanee, specie in un momento in cui il dibattito sul futuro delle politiche universitarie svolge un ruolo centrale per l’opinione pubblica e interessa un numero sempre maggiore di persone.
Un primo elemento significativo emerso dalle discussioni è la sostanziale congruità dell’arco cronologico prescelto come campo d’indagine. La scelta coraggiosa di inglobare in un unico sguardo due periodi separati da uno spartiacque epocale come il 1945 si è rivelata infatti produttiva, perché alcune tendenze peculiari di fondo nello sviluppo delle istituzioni di alta formazione hanno mostrato di travalicare un confine dettato essenzialmente dalla storia politica.
Questo è sicuramente vero per il fenomeno, essenziale in tutta l’esperienza accademica globale degli ultimi decenni, della crescita numerica degli studenti che accedono all’istruzione superiore. Il Nord America dalla fine della grande guerra, i grandi paesi dell’Europa occidentale degli anni Trenta, hanno conosciuto da questo punto di vista una crescita che nelle aree semi-periferiche rispetto a questi centri gravitazionali nella produzione della conoscenza si è espressa con l’emersione di sistemi di formazione superiore nazionali autonomi laddove prima essi erano carenti o appena abbozzati, e che ha assunto via via aspetti diversi e complessi. L’aumento generale degli studenti ha infatti comportato un accrescimento delle strutture, del personale docente, dell’economia orbitante attorno alle città universitarie e alla produzione di sussidi di studio. Inoltre, la crescita numerica ha comportato implicazioni caratteristiche, quali l’accesso alla formazione post-secondaria di personale proveniente da esperienze, estrazioni sociali e persino comunità etniche profondamente diverse, e quindi con diversi obiettivi per l’utilizzo del “capitale culturale” della formazione accademica; l’aumento del numero delle studentesse e la formazione di una stabile componente femminile tra docenti e ricercatori, con inevitabili ripercussioni soprattutto nei contesti in cui struttura formativo-culturale ed esperienza residenziale comune coincidevano; l’assunzione di dimensioni massive, specie in alcuni nodi particolarmente prestigiosi di una rete della mobilità accademica caratterizzata da una singolare continuità rispetto addirittura al Medioevo e alla prima età moderna, della presenza degli studenti stranieri, in un intreccio sempre più complesso con relazioni internazionali e diplomatiche sempre più frequentemente mosse su canali paralleli alla diplomazia ufficiale.
Le differenti modalità di reazione dei governi e delle comunità accademiche a un fenomeno sociale come quello dell’incremento sempre più evidente degli accessi, che comunque, anche quando non affrontato per inerzia o incompetenza, ha prodotto conseguenze sugli equilibri istituzionali e sulla funzionalità delle sedi universitarie, rappresentano un primo elemento per un possibile coordinamento degli studi a carattere locale e regionale. Un altro tratto comune si individua con un’indagine di maggiore profondità sulla cultura e sull’autorappresentazione del lavoro accademico e dei suoi obiettivi, perché ha a che vedere con lo sviluppo, di nuovo con una singolare continuità nel corso del Ventesimo secolo, di un modo specifico di intendere che cosa rappresenta l’università e quale può essere il suo ruolo sociale. Il riferimento spesso non chiaro all’emergere di un riferimento internazionale al “modello americano” di organizzazione degli studi e della ricerca che avrebbe caratterizzato l’università del Novecento, infatti, trova nell’indagine storica di medio-lungo periodo una definizione più complessa e pregnante. Già tra le due guerre la diffusione dei modi di ricerca e dei nuovi comparti disciplinari maturati nell’accademia USA dell’età progressista, attraverso i canali di mobilità del personale e di trasferimento delle competenze dissodati dalla filantropia culturale delle fondazioni Carnegie, Rockefeller e in seguito Ford, significò soprattutto diffusione dell’ottimistico approccio “demiurgico” di una conoscenza del mondo naturale e sociale destinata a trovare applicazione in grandi riforme della gestione della cosa pubblica volte al miglioramento della vita collettiva, fino alla promozione di un’autentica “ingegneria sociale”. Il rapido esaurirsi di questa illusione di fronte alle tragedie del secolo, e finanche la distorsione di alcuni meccanismi e di alcune convinzioni maturati in quella temperie al fine di controllare la collettività negli anni della guerra ai totalitarismi e delle tensioni tra Est e Ovest, non deve far passare in secondo piano che proprio in un contesto simile sono maturate alcune delle preoccupazioni che ancora oggi assillano la gestione dei nostri atenei: le sfide della corporate research e della competizione tra dipartimenti accademici e grandi complessi di ricerca e sviluppo; l’individuazione immediata e “misurabile” dell’impatto della produzione di conoscenza su vita produttiva, società e politica; la moltiplicazione dei campi disciplinari sulla base dell’incontro delle classiche discipline “pure” con le necessità conoscitive della vita sociale ed economica; la conseguente necessità di riformulare i percorsi offerti agli studenti, sulla base di un aggiornamento incessante non solo delle conoscenze, ma anche dei paradigmi, e della compresenza sempre problematica di formazione generale solida e valorizzazione degli aspetti “vocazionali” e professionalizzanti.
Molti dei problemi che oggi vivono le università nel mondo globalizzato, troppo spesso trattati con uno sguardo appiattito sull’attualità, trovano quindi collocazione in uno sguardo d’insieme a cui gli studi presentati nel convegno pisano contribuiscono a dar forma. Ma l’incontro è servito anche a individuare spunti cruciali su cui gli studi hanno ancora basi carenti e che è necessario porre in testa all’agenda della ricerca. Primo tra tutti, è ancora da costruire uno sguardo diacronico alla questione del finanziamento alla ricerca e all’istruzione superiore, tema cruciale per la definizione delle politiche universitarie degli ultimi anni sul quale spesso si hanno prospettive distorte. Lo sforzo, sempre più comune quantomeno nel mondo occidentale, al coinvolgimento di fondi destinati al sistema accademico da provenienze alternative alla finanza pubblica, ad esempio attraverso un maggiore ricorso alla tassazione o un maggiore coinvolgimento dei privati nel finanziamento e nel governo degli atenei, non può essere letto al di fuori di una tendenza di più lungo periodo che ha visto progressivamente aumentare la dipendenza dell’università dallo Stato. Questo cortocircuito potrebbe spiegare come mai, così spesso, la retorica “liberale” relativa alla riduzione dell’intermediazione coercitiva delle risorse tramite lo Stato che ha accompagnato la revisione delle forme di finanziamento agli atenei è servita a coprire strumenti di disciplinamento della vita degli studi e di controllo sugli orientamenti dell’attività culturale e di ricerca inusitati per paesi a tradizione liberale e pluralista.
Sul punto, comunque, non si è andati per ora al di là della constatazione che resta ancora parecchia strada da fare. In particolare, proprio in questo settore di ricerca potrà risultare proficuo uno sforzo d’incontro multidisciplinare con le categorie di analisi e le tecniche d’indagine della politica economica e dei public policy studies. L’appuntamento per guadagnare altro terreno in questo senso è rinviato ai prossimi mesi. Da un lato, è attualmente in preparazione un numero speciale di Memoria e ricercasullo studio delle politiche (e delle retoriche) universitarie italiane in chiave comparativa, che vedrà la partecipazione di specialisti di rilievo internazionale come Robert Anderson, Christophe Charle e William Zumeta. D’altro canto, all’Istituto universitario europeo di Fiesole è in programma per il prossimo dicembre l’incontro 200 years of dialogue between knowledge and power in Europe. Historicizing the challenges of higher education in the 21st century, che promette di riprendere e sviluppare col contributo di competenze ancora più varie molti degli spunti messi a fuoco a Pisa