Armenia: tra proteste e scelte obbligate
Il destino dell’Armenia un anno fa era ancora in bilico: avvicinarsi politicamente ed economicamente all’Europa o entrare a far parte dell’Unione Doganale insieme a Russia e Bielorussia? A quei tempi Stefan Fule, commissario europeo per l’allargamento dell’Ue era stato chiaro: se Yerevan sceglierà di aderire alla creatura transnazionale voluta da Mosca potrà scordarsi di avviare accordi commerciali con la Comunità Europea.
Le trattative per portare alcuni paesi ex-sovietici, in particolare le Repubbliche Caucasiche, sotto l’egida di Bruxelles sono continuate. Venerdì una porta si è chiusa: l’Armenia ratificando il trattato di Minsk ha ufficialmente fatto il suo ingresso nell’Unione Doganale Euroasiatica.
Il giorno dopo più di 10mila armeni sono scesi in corteo per le strade della capitale Yerevan. Base della protesta Piazza della Libertà, sede del teatro simbolo del paese, dove si sono riuniti i leader dei tre maggiori partiti di opposizione al Presidente Serzh Sargsyan. Evento più unico che raro vista la tradizionale frammentazione dell’opposizione armena: l’adesione all’Unione Doganale è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
La maggioranza della popolazione è insoddisfatta rispetto alla qualità della vita: le proteste sono rivolte soprattutto contro la corruzione, il malaffare e l’impunità dominanti ai piani alti della vita pubblica del paese. Dalla conquista dell’Indipendenza l’Armenia non ha pace: la disoccupazione persistente e i bassi salari degli occupati spingono ogni mese migliaia di persone a emigrare.
Inoltre l’opposizione è in rivolta a causa di alcuni emendamenti costituzionali che permetteranno all’attuale presidente Sargsyan di mantenere il controllo sullo Stato anche dopo la scadenza del suo secondo mandato (ultimo a disposizione).
Tuttavia è bene notare che la controversa adesione all’Unione Doganale non è ufficialmente oggetto della protesta. La firma di Sargsyan a Minsk ha il sapore amaro di una scelta obbligata: già a Novembre, nonostante l’interesse per l’avvio di rapporti commerciali con l’Ue, l’Armenia ha dovuto prendere atto di una sostanziale e completa dipendenza da Mosca.
La Russia è il maggiore partner commerciale, fornitore di energia (gas) e alleato militare della piccola repubblica. La sicurezza garantita dalle forze di Putin assume un rilievo particolare se si pensa che l’Armenia intrattiene pessimi rapporti con i suoi vicini Turchia e Azerbaijan.
Yerevan possiede una sola centrale nucleare quella di Metsamor, rappresenta il 40% dell’energia del paese e l’uranio che serve a farla funzionare viene dalla Russia: la Turchia pensa che tale centrale sia obsoleta e pericolosa e ne ha chiesto lo smantellamento che avverrà al massimo nel 2016 per imposizione dell’autorità internazionale per l’energia nucleare (Aiea).
Ancora peggiori i rapporti con l’Azerbaijan, non a caso strettamente alleato della Turchia. Pesa sui rapporti con Baku la guerra del 1992: 30mila vittime di cui 25mila erano soldati azeri. Da quel momento l’altipiano del Nagorno-Karabakh, situato in Azerbaijan ma abitato da armeni, gode di un’indipendenza de facto.
L’Azerbaijan però sta attraversando una rapida crescita economica e militare: PIL di 70 miliardi di dollari all’anno contro i 10 di quello armeno. Se decidesse di riprendersi la regione strategica del Nagorno-Karabakh, da cui si può tenere sotto tiro gran parte del suo territorio e nel quale hanno il loro tratto iniziale i fiumi che riforniscono Baku di risorse idriche, Bruxelles non sarebbe troppo lontana per intervenire?