Pacta sunt servanda? Pare opportuno trasformare in domanda uno dei capisaldi del diritto internazionale, se il patto di cui è in discussione il rispetto è quello “del Nazareno”. Lo ha dimostrato ieri Matteo Renzi, nel suo intervento iniziale alla direzione nazionale Pd: in tre secondi, infatti, ha minato in modo letale uno dei punti cardine della legge elettorale frutto dell’accordo progressivo tra lui e Silvio Berlusconi e che, dopo i primi aggiustamenti, sembrava incrollabile.
Partendo da un’affermazione di principio (“Il Pd è un partito che vince intanto perché fa una legge elettorale in cui sia chiaro che c’è uno che vince”, microvariazione del consueto refrain sulla legge che consegna un vincitore la sera stessa in cui le urne si chiudono), il presidente-segretario ha prima messo il dito su una piaga aperta, pur sbagliando almeno in parte la diagnosi: “non c’è mai stata una legge elettorale che ha consentito con certezza la vittoria“.
Per carità, ha buon gioco Renzi a ricordare le storture viste sotto la vigenza del Mattarellum (1994, 1996, 2001) e del Porcellum (2006, 2008, 2013): lui stesso, tuttavia, deve riconoscere che a far cadere o indebolire le maggioranze uscite vincitrici dalle elezioni è stata la fragilità – ordinaria o sopravvenuta – delle coalizioni più votate e non la legge elettorale in sé. E se alla formazione di maggioranze instabili possono aver contribuito i meccanismi di trasformazione di voti in seggi, su chi li ha messi in pratica dovrebbe ricadere la colpa di estinzioni premature di governi e legislature.
Renzi però non si è fermato. Quando il discorso elettorale sembrava chiuso, essendosi aperta la pagina della “vocazione maggioritaria” del Pd e del suo allargamento, il leader ha piazzato il colpo: “Probabilmente meglio il premio alla lista che il premio alla coalizione“. Non che ci sia da scandalizzarsi: se si punta sulla vocazione maggioritaria di un partito, cercare di godersi una torta da soli (il premio di lista) è più allettante rispetto al dividerla con i vicini (il premio di coalizione).
Il premio di maggioranza alla coalizione vincitrice, però, è fin dall’inizio uno dei punti qualificanti dell’accordo tra Renzi e Berlusconi per far nascere l’Itaclium. Per questo, non può sfuggire che quella frase di Renzi, lasciata cadere quasi con nonchalance, ha le sembianze di una mano robusta che nel vivo della partita acchiappa il bordo di una scacchiera con tutti i pezzi disposti ed è pronta a ribaltarla. Anche se, magari, dovrà attendere che l’avversario permetta il ribaltamento.
Nella seconda metà di gennaio, il fondatore di Forza Italia aveva accettato di correggere l’Italicum introducendo la soluzione (da lui mai amata) del doppio turno, ma non aveva ceduto sulla previsione di una soglia minima non troppo alta per far scattare il premio al primo turno. Berlusconi sperava così di riuscire a raccogliere il 37% al primo colpo, grazie a tutte le liste coalizzate con FI: in fondo bastava non rompere del tutto con Alfano e legarsi al maggior numero di sigle possibili.
Già alle politiche del 2013 il centrodestra aveva ottenuto solo lo o,47% in meno della compagine di Bersani, anche grazie a una coalizione di 9 simboli (al Senato addirittura 12): al di là della triade Pdl-Lega-Fdi, le forze minori hanno rastrellato l’1,58%. Berlusconi era pronto per perfezionare l’esperimento, sfruttando i varchi lasciati dall’Italicum: lo aveva notato subito il politologo Roberto D’Alimonte, avvertendo che nessuna norma avrebbe impedito all’ex Cav di riproporre emblemi come Basta Tasse e Liberi da Equitalia – che pure il Ministero nel 2013 ha fatto correggere – o di coniare nuove sigle raccattavoti come Forza Milan (che avrebbe raccolto di più di Forza Fiorentina, altrettanto possibile).
Questo Renzi lo sapeva certamente e qualche conto deve averlo fatto. Se non esiste in assoluto la legge elettorale migliore, da sempre per i partiti il sistema elettorale migliore è quello che permette loro di vincere (o di non perdere, che è più o meno la stessa cosa). Così, con il Pd che si regge e Forza Italia data in crisi da molti sondaggi, il premio alla lista consegnerebbe la vittoria ai Dem, senza la preoccupazione di dover costruire una coalizione più forte di quella di Berlusconi.
Certo, anche questa soluzione ha il suo bravo tasso di imprevedibilità, magari sgradevoli. Per dire, se si fosse votato secondo le ultime (per ora) volontà di Renzi, nel 2013 il “vincitore certo” non sarebbe stato il Pd, ma il MoVimento 5 Stelle (ovviamente, dando retta solo ai voti relativi alla Camera e raccolti in Italia); attualmente, però, i numeri del M5S non sembrano tali da insidiare le posizioni del partito del presidente-segretario.
Ad appoggiare la consultazione referendaria furono esponenti politici in modo trasversale e anche il Pd si era schierato per il “sì”. Quella volta, peraltro, non andò a votare nemmeno un elettore su quattro e tutto finì lì: qualcuno ebbe paura di una deriva bipartitica dell’Italia, in molti se ne disinteressarono del tutto (ammesso che avessero capito gli scopi del referendum). Ora, oltre cinque anni dopo quel tentativo fallito, l’idea di Guzzetta e Segni potrebbe essere ripresa da Renzi, che in questo momento avrebbe tutta la convenienza a metterla in pratica.
Resta, come al solito, l’enigma del pallottoliere. I numeri per approvare da solo una legge elettorale con premio di lista il Pd non li ha; difficile immaginare che un apporto dai partiti minori che, col nuovo sistema, perderebbero tutto il loro potere contrattuale. Lo stesso dovrebbe valere per Forza Italia (che ora arriverebbe al massimo seconda, una sconfitta per chi gioca per vincere nel nuovo, possibile sistema), a meno che il suo leader pensi all’ennesimo, imprevedibile rilancio del partito.
Le coincidenze, tuttavia, sono innegabili: Renzi recupera l’idea di Giovanni Guzzetta proprio mentre – a dar retta alle indiscrezioni – salgono le quotazioni di quest’ultimo come candidato alla Corte costituzionale per Forza Italia (Guzzetta del resto è stato capo di gabinetto di Brunetta quando lui era ministro). Non significherà nulla, se non per i maligni e i mentitori di professione, ma almeno per oggi i retroscenisti hanno certamente qualcosa in più di cui scrivere.