Sostenere militarmente il Kurdistan iracheno e i peshmerga contro l’Isis? Non prima d’aver compreso la realtà sul campo. Quella di un semi-Stato ancora privo di un esercito nazionale professionale.
Così la pensa Jasmin Tawfik Mustafa, esule curdo in Italia oramai da trent’anni. Ha scritto libri (I curdi: il dramma di un popolo e la comunità internazionale), collabora con attivisti e studiosi curdi e italiani. Spiega chi sono i peshmerga del Kurdistan e i due principali partiti al potere: il Pdk e l’Upk. Il problema del Kurdistan iracheno è un problema di governance, sostiene.
“I peshmerga sono milizie che appartengono esclusivamente ai due partiti curdi: il Pdk di Barzani e l’Upk di Talabani, guidati appunto da due famiglie per anni in lotta tra di loro” dice: “Non abbiamo ancora un esercito nazionale che rappresenti tutte le fazioni e questa è una delle grandi lacune del Kurdistan, attualmente guidato da un governo di coalizione che comprende anche il movimento laico liberale, Gorran”.
Per anni, spiega Jasmin Mustafa, in Kurdistan sono prevalsi nepotismo, corruzione e abuso di potere. E continua ad esserci grande divario tra società civile e politica. “Se fino a dieci anni fa avevamo una sola università pubblica, oggi ne abbiamo venti ma tutte private”, dice. Non è un caso che proprio in un contesto di frammentazione sociale e corruzione come questo si inserisca l’azione dell’Isis.
Ai margini di una politica nepotista esiste in Iraq una società civile irachena vitale che sta dalla parte delle minoranze. E una popolazione civile curda che ha molto sofferto ed è alla ricerca di un’unità e un’identità. La ong irachena YazidiSolidarity and Fraternity League ad esempio, soccorre la comunità Yazida, che assieme alla minoranza cristiana è oggi sotto la mannaia dell’Isis in Iraq.
Husum, che è Yazida (religione di culto preislamico con elementi del giudaismo cabalistico e dello zoroastrismo) ed è il responsabile di questa ong, racconta che in tre mesi ha vissuto uno dei peggiori attacchi della loro storia.
“Abbiamo ripetutamente chiesto aiuto all’esercito iracheno, ai peshmerga e alla comunità internazionale: invano finché Sinjar è stata occupata. Centinaia di persone sono state massacrate mentre un vero e proprio esodo cercava di raggiungere il Kurdistan rimanendo intrappolato sulle montagne”.
Ma il sostegno militare che stiamo inviando noi dall’Europa servirà ad aiutare le vittime del califfato islamico? Chiediamo.
“Io ritengo che l’aiuto militare occidentale ai curdi in funzione anti Isis serva ma non è sufficiente se non facciamo pressione sulla politica, per il rispetto dei diritti di tutti” dice ancora Mustafa: “Abbiamo ignorato i curdi troppo a lungo per riscoprirli in pochi mesi”.
In ‘La crisi irachena, cause ed effetti di una storia che non insegna (libro collettivo a cura di Osservatorio Iraq e Un Ponte per…) Mustafa scrive che “dopo la caduta di Saddam, con la nuova Costituzione del 2004, si ottiene un primo risultato: viene sancito il federalismo e il riconoscimento delle istituzioni curde. I curdi assumono un ruolo primario nella vita politica del ‘nuovo Iraq’. Tuttavia la governance del Kurdistan non è cambiata”. Ancora due clan che si prendono risorse e potere.
La minaccia dell’ISIS paradossalmente ha coalizzato i curdi ma non ha ancora unificato le forze politiche interne al Kurdistan iracheno. “La nostra fragilità è il complesso di inferiorità che nutriamo rispetto ai Paesi confinanti” dice, “primo fra tutti la Turchia. Noi non siamo ancora una nazione, siamo divisi. Questo non è né un difetto né un pregio ma di certo non aiuta”.
D’altra parte l’invio di armi e di uomini dall’Italia in Iraq, in funzione anti Isis, è assolutamente contestato da diverse organizzazioni come la Rete Italiana Disarmo, che lo vede come un intervento inefficace e controproducente. “Uno dei rischi più grossi è che queste armi finiscano nel buco del mercato nero. C’è il forte timore che possano andare nelle mani sbagliate”, spiega Francesco Vignarca della Rete Italiana Disarmo.
“La sparizione di armi in quella regione è un dato di fatto ampiamente documentato dai rapporti del Pentagono e da centri di ricerca come il Sipri di Stoccolma”, si legge nei comunicati della Rete Italiana Disarmo. Insomma “è come buttare benzina sul fuoco. Il rischio è che si vada ad ampliare l’incendio”, aggiunge Vignarca.
Tra le obiezioni, inoltre, c’è quella non secondaria della provenienza delle armi italiane, che farebbero parte del deposito sequestrato Jordan Express, dal nome della nave del trafficante russo Zhukov. Armi obsolete e mal funzionanti. Che servirebbero a “non sentirsi inferiori e nel contempo a non esporsi troppo dal punto di vista militare e per gli aspetti finanziari. Si è data una spolveratina ad un arsenale per anni dimenticato” afferma Vignarca.
“La decisione del governo italiano tradisce la mancanza di una visione politica e strategica di lungo periodo”, scrivono Giulio Marcon e Francesco Martone. Un intervento Onu, anche armato se necessario e l’isolamento finanziario dell’Isis, sono viste come alternative migliori all’invio sporadico di armi e uomini.