Un secolo fa, quando in Europa imperversava la tubercolosi, Bertolt Brecht disse che non era una malattia neutrale, che non colpiva del tutto a caso, che si accaniva sui poveri perché erano meno nutriti, vivevano in abitazioni umide, lavoravano dieci, dodici ore al giorno e non potevano fare ricorso a medici e farmaci.
Con il linguaggio moderno della medicina si sarebbe detto che la povertà era un fattore di rischio. Oggi si può dire la stessa cosa per ebola.
Il virus non colpisce a caso e quando colpisce uccide prevalentemente chi non viene diagnosticato subito, chi non può essere messo immediatamente sotto infusione. In sostanza chi non può ricorrere a cure adatte e medici esperti. Non solo, infetta più facilmente chi vive in promiscuità, in slum o baraccopoli sovraffollate, chi deve frequentare mercati per acquistare o vendere prodotti, chi non può fare a meno dei piccoli commerci.
Anche per ebola, dunque, si può dire che la povertà è un fattore di rischio. E la situazione rischia di peggiorare. Dai paesi colpiti arriva la notizia che in alcune regione il blocco dei commerci, degli investimenti, dei movimenti per la paura del contagio ha fatto rispuntare sacche di denutrizione e anche di fame vera e propria.
Del resto le previsioni economiche per questi paesi sono già pessime: la tendenza ad una sensibile crescita sono state invertite e anche gli investitori internazionali e gli operatori turistici hanno dovuto fare marcia indietro.
E’ difficile uscire dal proprio destino. L’Africa rischia di essere gettate di nuovo in pasto ai propri, deleteri, luoghi comuni: fame, carestie, povertà, guerre. Insomma una spirale perversa.