Reportage su elezioni Ucraina – Клембі́вка, Ямпільський район. Klembivka, Distretto di Jampil’, Ucraina Centrale. Ventidue chilometri dal confine moldavo, trecentoottantaquattro da Kyiv, ottocentotrentaquattro da Donetsk. Tremilaottocentoquarantadue grevi rintocchi di umanità. Oceaniche distese collinari bardate dal riservato candore di una nevosa mareggiata.
Fiochi, afoni, giungono qui gli echi delle bombe detonate in Donbassa. Flebili, rauchi, gli eleganti e composti tentativi di comprensione di faccendieri d’opinione, analisti ed esperti. La dolcezza, atavica, del materno canto dei campi costituisce l’unica ricchezza di un contesto in cui brillano meramente cristallini artefatti di brina, regali improvvisati dalle invernali maestranze di un bucolico Fabergé.
Le ombre di anime penitenti, ostacolate dalla gelata mattutina, iniziano il loro silenzioso incedere verso la sola chiesa capace di offrire una domenicale prospettiva di redenzione: il seggio elettorale. Comincia così, pigramente, la liturgia dell’odierna messa laica chiamata elezioni parlamentari.
Un succedersi ininterrotto di sagome, levigate come statuine d’ebano dalla eterea inconsistenza materica del freddo, costituisce il corteo di questa laboriosa processione. Ordinate esse entrano nello spoglio chiostro e, avvicinandosi al proprio confessore, assicurano la fedeltà del proprio voto, ricevendo in cambio la promessa di una messianica salvezza eternamente destinata a compiersi. Fulmineamente, la devozione dei fedeli si raccoglie, si prostra, attorno all’ascesa sul sagrato di un mondano omologeta: григорий василович, Hryhoryi Vasylovych. Egli, assessore all’agricoltura, antropomorfa icona del realismo socialista, consola, come un re taumaturgo, le debolezze dei suoi penitenti vassalli.
La reverenza mistica con la quale viene sussurrato il suo nome riflette specularmente l’ultraterrena sacralità del suo potere espiatorio, curativo. Il suo tocco, la sua catartica unzione, granitica come il calco della sua andatura, guarisce la sonorità dei tonfi, dei cedimenti, di una comunità pastorale recitante il proprio univoco canto, la propria preghiera laica: la-guerra-deve-finire.
Il significato dell’odierno pellegrinaggio elettorale trascende infatti le interminabili discussioni sulle contrapposizioni geo-politiche, sul percorso del sogno europeo, sulle diatribe energetiche, sulla conta dei morti nelle regioni orientali. Le poste del rosario, saldamente impugnato da questa umanità abusata, indifesa, intonano, con la spontaneità e la genuinità proprie delle anime semplici, un richiamo atavico al principio di umanità, ad un principio capace di silenziare la brutalità corrotta, interessata, della parola politica, della parola economica e della parola mediatica, scaldando con l’incandescenza primordiale del suo messaggio.
È questo richiamo all’universalità, propria della parola religiosa, che scandisce, sillaba, oggi, dopo un anno di sofferenze e miserie, il popolo ucraino. Ovest, Est, Indipendenza, Autodeterminazione, Unione Europea, Russia, parole di una partita geo-politica sfuggita di mano all’etero-direzione dei due contendenti, impallidiscono davanti alla semplice umiltà con cui risolutamente il popolo ucraino sussurra l’essere ingenito, ancestrale, della parola u-o-m-o. Gli equilibristi di potere, interessati a perpetrare i loro redditizi emolumenti, compiono acrobazie tentando di ri-orientare, ridefinire, le mire delle loro traiettorie. Silenziano l’esigenza del sussurro, nascondendo cosmeticamente l’eterna continuità della propria essenza, delle proprie furberie.
Scende la sera. Sfoca il prorogato canto di questo inusuale sabato del villaggio. Si chiudono gli usci della cattedrale laica. Incominciano ad arrivare le prime proiezioni. La coalizione capitanata dal Presidente Poroshenko guiderà, molto probabilmente, il nuovo Parlamento. I partiti filo-europeisti, principalmente radicati nelle regioni occidentali del Paese, registrano ampi e trasversali consensi. Il Blocco dell’Opposizione, ricostruito frettolosamente dagli oligarchi fedeli al fuggiasco ex-presidente Yanukovich, intenti a riorganizzare una nuova ambasciata attorno ai propri interessi in Parlamento, supera lo sbarramento.
Il nuovo Parlamento diverrà un ribollente gineceo in cui virili dovranno essere gli sforzi intrapresi dall’eunuco-Poroshenko nel conciliare gli eterogenei berci interessati delle plurime primedonne. Gli osservatori internazionali, sottolineando il corretto svolgimento del voto, incentivano il proseguo del percorso di riforma intrapreso dalla classe politica ucraina e invitano all’incessante ricerca di un dialogo. Laconico arriva, infine, l’andiamo-in-pace di questa veglia elettorale, recitato dalla risolutezza di un’anziana signora, la quale, scostandosi il tabarro dal viso, decreta, con la ritmata e copiosa metrica propria della liturgia, “Le elezioni non serviranno a niente. La guerra, così come la neve, Dio ce l’ha data e Dio se la riprenderà”. Amen.
Marco Residori