Intervista ad uno dei protagonisti della Leopolda 5: il deputato del PD Edoardo Fanucci. Forse, nel clamore mediatico della tre giorni della Leopolda fiorentina, non tutti lo avranno notato, quasi in ombra al fianco della celebre madrina Maria Elena Boschi e dell’unico “padrone di casa”, Matteo Renzi.
Eppure Edoardo Fanucci, giovane deputato toscano del Pd, è tra le menti dietro alla quinta edizione della kermesse renziana: un’edizione, questa, che ha segnato il passaggio dei “rottamatori” da movimento di opinione a classe di governo.
Classe ’83, ex vicesindaco di Montecatini e renziano della prima ora, entrato in Parlamento dopo le elezioni politiche di febbraio dello scorso anno tsunami che segnarono il tramonto della vecchia dirigenza Pd, Fanucci si sta guadagnando, pian piano, la ribalta mediatica che fu delle Boschi e degli altri membri del “cerchio magico” renziano: e non è un caso se lo stesso premier abbia scelto proprio lui per l’organizzazione di questa delicata edizione, preferendolo a volti più famosi e rodati. Lo abbiamo incontrato per fare un bilancio di questa edizione, segnata anche dalle mille polemiche della piazza di Roma e dallo scontro con la CGIL e la minoranza PD.
Onorevole Fanucci, può fare un bilancio di questa quinta Leopolda? E’ stata un’edizione diversa?
Il bilancio è estremamente positivo: ha partecipato tantissima gente. Lo spirito della Leopolda è stato quello di sempre: confronto e interventi non solo di politici, ma anche di imprenditori, liberi professionisti, insomma cittadini normali che volevano raccontare una loro esperienza positiva. Quest’anno, però, abbiamo sentito una responsabilità ulteriore perché per la prima volta abbiamo il compito di guidare l’Italia: non basta più invocare il cambiamento, occorre metterci al lavoro per renderlo possibile. Non siamo al governo per “occupare poltrone”, ma per realizzare le riforme che il Paese attende da anni.
Non tutte rose e fiori, però: Daniele Calosi, segretario Fiom Firenze, si è lamentato di non aver potuto parlare alla Leopolda. Come risponde a questa accusa, e in generale alla mancanza di voci dissidenti alla kermesse renziana?
La porte della Leopolda erano aperte, come sempre, a tutti: per fare un esempio anche Fassina era stato chiamato ad intervenire, ma com’è noto ha preferito declinare l’invito. Per quanto riguarda il caso del sindacalista Fiom, penso si sia trattato di un equivoco: ieri pomeriggio, Renzi e Calosi si sono abbracciati e hanno scherzato sull’episodio. In ogni caso, mai prima d’ora i cittadini avevano avuto modo di rivolgersi direttamente ad un ministro per proporre idee o avanzare critiche, come ai tavoli di discussione di quest’anno: mi sembra opportuno sottolineare questo aspetto.
In molti hanno parlato di un vero e proprio “Partito della Leopolda”, che avrebbe ormai del tutto “rottamato” il Pd, di cui, ad esempio, erano assenti totalmente bandiere e riferimenti: qual è la sua opinione in merito?
Non dobbiamo fare confusione: la Leopolda è un evento pensato per incoraggiare la partecipazione della gente, anche di tante persone che non voterebbero mai Partito Democratico o che non assisterebbero mai ad un classico comizio di partito, con bandiere e simboli riconoscibili. È un formato nuovo, con il quale Renzi e il centrosinistra allargano i propri confini e parlano a tutti gli italiani, al di là degli schieramenti e di ogni ideologia del passato.
La strategia è chiara: prendere anche i voti dei delusi del centro-destra ed allargare così la base del consenso. Intanto però si profila uno scontro sempre più duro con la minoranza di sinistra del Pd e con il sindacato. Quali sono le sue previsioni? è in vista una scissione secondo lei?
Non credo siano in arrivo sorprese da questo punto di vista: il nostro obiettivo è tenere insieme la Leopolda e la piazza della Cgil. In passato, una delle ragioni della cronica debolezza del centrosinistra era l’assenza di un leader forte e la costante tentazione alla scissione dell’atomo: a mio avviso quella stagione può dirsi conclusa, e non dobbiamo rimpiangerla. In ogni caso, se una parte del Pd decidesse di intraprendere una strada diversa, saranno gli elettori a giudicare questa scelta. Noi andremo avanti, forti delle nostre idee e del voto di 11 milioni di italiani che lo scorso maggio ci hanno dato fiducia.
Lo scontro in atto si gioca soprattutto sul tema del lavoro: alcuni esponenti della minoranza Pd hanno minacciato di non votare il Jobs Act, nemmeno con un voto di fiducia. L’articolo 18 rappresenta davvero un totem superato?
Ridurre il Jobs Act ad uno sterile dibattito sull’articolo 18 è fuorviante. La Legge delega votata dal Senato offre tutele a milioni di lavoratori, molti dei quali giovani, che oggi vivono in una condizione di totale precarietà. L’articolo 18, peraltro, riguarda sempre meno aziende e pochissimi casi all’anno: dobbiamo restituire all’imprenditore la libertà di assumere senza vincoli e offrire ai lavoratori il supporto reale dello Stato quando sono senza un impiego. Non si tratta di incentivare i licenziamenti, ma di rendere più semplici le assunzioni. Le attuali norme sul lavoro risalgono ad oltre quaranta anni fa: il mondo è cambiato, occorre prenderne atto ed aggiornare gli strumenti alla nuova realtà.