Ddl diffamazione: il Senato sostituisce Google ai giudici
Sarà Google – e, naturalmente, i gestori degli altri motori di ricerca – a decidere se e quali informazioni continueranno ad essere accessibili online e quali scompariranno per sempre, dietro semplice richiesta dell’interessato e senza bisogno che sia un giudice a pronunciarsi.
Il disegno di legge in materia di diffamazione appena approvato dal Senato e, ora, in viaggio, di nuovo, verso la Camera dei Deputati, stabilisce, infatti che: “Fermo restando il diritto di ottenere la rettifica o l’aggiornamento delle informazioni contenute nell’articolo ritenuto lesivo dei propri diritti, l’interessato può chiedere l’eliminazione, dai siti internet e dai motori di ricerca, dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione di disposizioni di legge”.
E’ questa la ricetta elaborata dai Senatori per consentire a chiunque si senta diffamato da un qualsiasi contenuto pubblicato online, di limitarsi ad inviare una mail a Google perché lo disindicizzi.
E altrettanto potrà fare chiunque pensi che Google associ indebitamente i propri dati personali ad una pagina web. L’interessato – chiunque esso sia – chiede a Google e Google, decide se accogliere o meno la richiesta, sapendo che se l’accoglie non corre nessun rischio mentre se non l’accoglie, potrebbe ritrovarsi davanti ad un giudice che potrebbe ordinargli la rimozione. Lo stesso disegno di legge appena approvato al Senato, infatti, prevede che: “L’interessato, in caso di rifiuto o di omessa cancellazione dei dati, ai sensi dell’articolo 14 del decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, può chiedere al giudice di ordinare la rimozione, dai siti internet e dai motori di ricerca, delle immagini e dei dati ovvero di inibirne l’ulteriore diffusione.”.
La ricetta, ricorda assai da vicino quella elaborata nei mesi scorsi dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che ha, di fatto, nominato Google “arbitro” della memoria della Rete, stabilendo che siano proprio i gestori dei motori di ricerca a dover decidere, in caso di richiesta di disindicizzazione degli interessati, se e quali contenuti continuare ad indicizzare e quali no.
Una sentenza, quella della dei giudici di Lussemburgo, che ha già fatto tanto discutere perché sbilanciata – forse troppo – a favore della tutela della privacy e troppo poco attenta alle esigenze di chi fa informazione e di chi le informazioni ricerca per informarsi o per raccontare la storia.
Ma il Senato è andato oltre ed ha “nominato” Big G – e gli altri gestori dei motori di ricerca – arbitro anche di tutte le vicende nelle quali, qualcuno, a torto o a ragione, si senta diffamato da un contenuto pubblicato online ed indicizzato.
E’ una soluzione straordinariamente pericolosa per la libertà di informazione e sorprende davvero la leggerezza con la quale – anche a scorrere i resoconti stenografici delle sedute in Commissione ed in Assemblea – il nostro Senato l’abbia potuta assumere.
E’ facile, infatti, immaginare che quando domani il politico o il personaggio famoso di turno, scriverà a Google per chiedere di disindicizzare un articolo che lo riguarda perché diffamatorio, Google, salvo eccezioni, accoglierà la richiesta per sottrarsi ad ogni possibile contestazione senza, naturalmente, perdere troppo tempo a valutarne la fondatezza o l’infondatezza.
E, d’altra parte, non è certo compito di una corporation quello di amministrare giustizia e decidere se un contenuto lede o non lede l’onore e la reputazione di una persona come, peraltro, non dovrebbe toccare – e da qui i dubbi già sollevati dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – ad una corporation decidere se è giusto ricollegare il nome ed il cognome di una persona ad una pagina web per finalità informative o se, invece, non è giusto.
Prevedere che sia un soggetto terzo rispetto al contenuto pubblicato a deciderne le sorti è sbagliato e pericoloso ed è – e questo sembra essere completamente sfuggito ai senatori – cosa ben diversa che prevedere che chiunque possa chiedere, come, peraltro, già avviene, ad un giornale, ad un blogger o al gestore di un qualsiasi sito internet di rimuovere un contenuto da questi scritto e pubblicato.
L’autore o l’editore di un contenuto, infatti, è in grado di difendere la legittimità del proprio operato e, dunque, la permanenza online del contenuto mentre il gestore di un motore di ricerca, per un verso non è in grado di farlo e, per altro verso, non è competente a farlo visto che il suo obiettivo non è quello di fare informazione, cronaca o storia ma, semplicemente, quello di indicizzare le storie e le notizie da altri prodotte e pubblicate.
La previsione in questione, di fatto, affida al gestore di un motore di ricerca compiti che la Costituzione vorrebbe affidati ai giudici, unici in grado di decidere se un contenuto merita di restare accessibile al pubblico o di essere cancellato o disindicizzato.
Forse il disegno di legge appena approvato dal Senato non sarà un “bavaglio” ma è fuor di dubbio che rende straordinariamente più facile far sparire un’informazione ‘indesiderata’ dal web di quanto non sia oggi.
Ed è un vero peccato che una legge nata con l’obiettivo di proteggere l’informazione, almeno abolendo il carcere per la diffamazione, finisca con l’immolare proprio la libertà di informazione sull’altare di un principio maledettamente pericoloso ed antidemocratico come quello secondo il quale ciò che è tecnicamente possibile – come domandare a Google di disindicizzare un contenuto che si assume illecito – deve considerarsi anche giuridicamente legittimo e politicamente opportuno.
Non sarà un bavaglio ma, almeno sul web, la legge è pericolosamente sbagliata e c’è da augurarsi che la Camera dei Deputati la corregga in fretta.