Deve essere arrivata tardi – o, più probabilmente, non arrivata affatto – al Senato la notizia della decisione con la quale lo scorso 28 ottobre la Corte Suprema argentina ha detto definitivamente no a Belen Rodriguez – la nota showgirl – che le aveva chiesto di condannare i motori di ricerca per aver continuato ad indicizzare, nonostante le sue richieste, un video di carattere pornografico, diffuso abusivamente in Rete da un suo ex fidanzato.
Se, infatti, la notizia fosse arrivata prima, forse, lo scorso 29 ottobre, il nostro Senato avrebbe riflettuto meglio e di più prima di approvare il disegno di legge in materia di diffamazione – ora spedito alla Camera dei Deputati – stabilendo che “Fermo restando il diritto di ottenere la rettifica o l’aggiornamento delle informazioni contenute nell’articolo ritenuto lesivo dei propri diritti, l’interessato può chiedere l’eliminazione, dai siti internet e dai motori di ricerca, dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione di disposizioni di legge”.
La Corte Suprema argentina, infatti, ha fissato un principio diametralmente opposto a quello che sembra aver ispirato i nostri Senatori.
Secondo i giudici argentini, infatti, un motore di ricerca non dovrebbe mai poter essere richiesto di disindicizzare un contenuto – e, ovviamente, tantomeno essere chiamato a rispondere dell’indicizzazione di un contenuto eventualmente poi risultato illecito – in assenza di un ordine del Giudice o della competente Autorità o almeno in assenza di un accertamento del carattere illecito della pubblicazione del contenuto indicizzato.
A ragionare diversamente, scrivono i Giudici argentini nella loro decisione, si finisce inesorabilmente con il compromettere il ruolo fondamentale svolto – poco importa se nell’ambito di un’attività commerciale e non per filantropia – dai motori di ricerca nella disseminazione dei contenuti a favore di miliardi di persone.
La possibilità di prevedere un obbligo di disindicizzazione per i motori di ricerca dovrebbe essere limitata alle sole ipotesi in cui la pubblicazione del contenuto del quale si chiede la disindicizzazione sia evidentemente e palesemente illecita.
Si tratta, tuttavia, di un’ipotesi che ben difficilmente ricorre quando ci si trova davanti ad un possibile reato di opinione o, magari, alla violazione della privacy di un personaggio famoso, casi nei quali è sempre difficile – persino per un Giudice – bilanciare ed individuare dove finisce il diritto di cronaca e dove inizia la lesione dell’altrui reputazione o la violazione dell’altrui riservatezza.
Certo, il Senato, non ha imposto – né avrebbe potuto – ai gestori dei motori di ricerca un vero e proprio obbligo di disindicizzare ogni genere di contenuto dietro semplice richiesta di chicchessia ma prevedendo il diritto – o almeno la facoltà – dell’interessato di inoltrare a Google ed agli altri gestori dei motori di ricerca una richiesta di disindicizzazione ha innegabilmente coinvolto questi ultimi nel processo di valutazione circa la legittimità o illegittimità della pubblicazione di ogni contenuto loro segnalato come illecito.
E, a questo punto, se la richiesta di disindicizzazione verrà considerata come prova dell’effettiva conoscenza da parte del gestore di un motore di ricerca del carattere illecito di un contenuto disindicizzato quest’ultimo rischierà, qualora non rimuova, di sentirsi poi chiamato a rispondere dell’illecito – quale che esso – commesso dall’autore della pubblicazione giacché la disciplina europea della materia prevede che chi, come il gestore di un motore di ricerca, si limita ad intermediare contenuti altrui, non ne risponde ma solo a condizione che si attivi pron . tamente appena avuta conoscenza del carattere illecito del contenuto.
E, ancora una volta, la decisione dei Giudici argentini è illuminante perché esclude che possa un motore di ricerca possa considerarsi avere effettiva conoscenza dell’illiceità della pubblicazione di un contenuto, semplicemente a seguito di una mail con la quale qualcuno gliene chiede la rimozione.
Ma in Italia, come andrà a finire?
Allo stato il disegno di legge approvato dal Senato non prevede nulla al riguardo, lasciando così esposti i motori di ricerca ad eventuali responsabilità ed inducendoli – se la proposta dovesse davvero diventare legge – ad accogliere il maggior numero di richieste di disindicizzazione possibile per mettersi al riparo da qualsivoglia rischio.
Così, però, avremo perso tutti e non avrà vinto nessuno salvo chi – e sono, purtroppo, tanti – interpreta il diritto di cronaca come circoscritto a che altri diano notizie positive sul proprio conto e quello alla privacy come diritto a poter chiedere a chiunque di non parlare di sé, salvo che in toni lusinghieri.
E’ per questo – anzi, anche per questo – che il disegno di legge appena approvato è sbagliato ed è, pertanto, auspicabile che la Camera dei deputati corregga il tiro, facendo tesoro della lezione argentina.