“Grand Budapest Hotel”, cast stellare e apprezzamento della critica per l’ultimo film di Wes Anderson
Proiettato all’apertura del Festival di Berlino nel mese di febbraio, dove è stato recensito a quattro stelle da molti critici, “Grand Budapest Hotel” è un racconto picaresco ambientato intorno all’omonimo hotel ed anche uno dei film più leggeri e accessibili di Wes Anderson.
Uno scrittore ricorda la sua giovinezza, trasportandoci indietro nel tempo fino al 1968, quando trascorreva un periodo come ospite (Jude Law) al Grand Budapest, situato nella immaginaria Repubblica di Zebrowka. In un’atmosfera da repubblica socialista sovietica, egli incontra Zero Moustafa (F. Murray Abraham), proprietario dell’hotel. I due cenano insieme nella gloria sbiadita del ristorante dell’albergo, mentre i camerieri, presumibilmente sottoccupati, servono piatti pomposi agli ospiti, immersi in un arredamento quasi teatrale, con dipinti solenni e teste di cervo.
Moustafa ricorda di essere arrivato in hotel nel 1932, come nuovo ragazzo di sala (“lobby boy” ovvero “garzoncello”, come viene definito nel film), quando il Grand Budapest stava godendo il suo periodo di massimo splendore: il suo aspetto esteriore sembrava quello di una torta rosa satinato ed internamente era un trionfo di colori, tutto brulicante di energia e di vita. Qui il giovane Moustafa (Tony Revolori) trova un mentore: Gustave (Ralph Fiennes), il concierge, che in realtà si comporta come il direttore dell’hotel (figura peraltro assente) e che ha in sé qualcosa di tremendamente leggero ed insieme piacevolmente inquietante.
Gustave è meticoloso, pignolo, leale, fruttato, semi-comico. Crede fermamente nella missione di fornire un servizio, ama la poesia e un certo profumo (L’Air de Panache), nonché andare a letto con vecchie signore, per scelta, piacere e senza secondi fini, perché “Cominci con il filetto, [ma] quando passano gli anni devi accontentarti di tagli meno pregiati”.
Va a letto anche con la follemente ricca signora D. (una irriconoscibile Tilda Swinton “vestita” da Gustav Klimt), che poi muore, lasciando un testamento che genera dapprima una rissa e poi una serie di rocambolesche avventure che coinvolgono, tra gli altri, il figlio della defunta (Adrien Brody), il suo guardaspalle–killer (Willem Dafoe), l’avvocato (Jeff Goldblum) e un ufficiale di polizia (Edward Norton). Intanto il giovane Moustafa si innamora, ricambiato, della ragazza che lavora nella pasticceria locale, Agatha (Saoirse Ronan), anche lei trascinata suo malgrado nel pericoloso tentativo di recuperare un quadro di inestimabile valore, presumibilmente lasciato in eredità a Gustave dall’attempata signora.
Ci sono fughe e inseguimenti di ogni genere e vari camei (Bill Murray, Owen Wilson, Harvey Keitel). C’è molto da vedere. Ma anche da pensare. Anderson si è ispirato al lavoro dello scrittore viennese Stefan Zweig, ebreo fuggito a Londra nel 1934, dopo l’ascesa di Hitler al potere in Germania, quindi il tema latente è la minaccia incombente del nazismo. Tutto si riferisce a quel tema attraverso espedienti estetici: la facciata rosea e fiabesca del Grand Budapest in contrasto con il grigio delle uniformi dei cattivi; i soldati che mettono fine ai viaggi in treno di Gustave e Moustafa, puntualmente malmenati e dai nasi sanguinanti; il colore che si perde dalla schermata precedente passando al bianco e nero.
La pellicola di Anderson è un inno ad un’era che sarebbe stata presto cancellata da un esercito di occupazione, un esercito che avrebbe stabilito il suo quartier generale al Grand Budapest. Tanto spazio per le immagini sontuose (come gli ornamenti d’epoca e gli splendidi costumi) e per i riferimenti alla storia, ma anche un piccolo spazio per il dolore, nel racconto del vecchio Moustafa, già orfano di guerra, che ricorda Agatha e Gustave, morti troppo presto.