Quella riduzione della spesa pubblica che non c’è
La spending review è uno di quei termini prima sconosciuti entrati nel linguaggio comune come lo spread, e certo non totalmente chiariti, e ancora di più disattesi. Abbiamo parlato delle proposte di Cottarelli, di quanto poco sia stato seguito, e in effetti la cosa appare ancora più attuale se consideriamo che la spesa pubblica non è certo diminuita gli anni passati
Tra le ultime ricerche vi è quella della CGIA di Mestre, che calcola che dal 1997 la spesa pubblica al metto degli interessi sul debito in valore assoluto è salita del 68.7%, fino ai 726,6 miliardi di oggi. Finanziati con una tassazione anch’essa in crescita, in particolare quella locale, che nel 2013 è stata di 111 miliardi, salita del 204,3% nello stesso periodo di tempo, a fronte di un incremento della tassazione statale di “solo” il 58,8%.
La seguenti infografica che incorpora le proiezioni per il 2014 lo illustra bene:
A mettere il carico da undici arriva a la ricerca del centro studi di Unimpresa che del resto si basa sul Def (Documento di economia e finanza) del governo Renzi del 2014: anche per il futuro la spesa pubblica italiana è prevista salire da 827 a 870 miliardi nel 2018, un aumento compatibile solo con una ripresa della crescita del PIL, oltre che dell’inflazione, eventi non certo scontati.
In particolare aumenteranno i consumi intermedi (+8,3 miliardi), la spesa per le pensioni (+28,1 miliardi) e quella per gli stipendi pubblici (+1,3 miliardi) e tutte le altre spese correnti (+45,5 miliardi).
In discesa solo le spese per interessi, di 4,3 miliardi, prevedendo uno stabile calo dello spread. In pratica la ricetta degli anni ’90 quando tutto l’aggiustameno dei conti fu affidato al calo degli interessi sul debito, senza preoccuparsi di riforme strutturali della spesa corrente, lasciata correre indifferentemente a prescindere dalle performances de PIL
In particolare salirebbero proprio quei consumi intermedi che erano nel mirino di Cottarelli, a dimostrazione di quanto poco sia stato considerato il suo lavoro. A dire il vero nel 2015 è previsto un maginale calo, cancellato dagli aumenti dal 2016 in poi, anche qui basati sulla previsione di una crescita economica ancora tutta da guadagnare.
Naturalmente vi è da considerare, come fanno molti osservatori soprattutto di scuola keynesiana, che la spesa primaria italiana non è superiore a quella media dell’Eurozona, e anzi è in discesa, e supera di poco quella tedesca, rimanendo ampiamente inferiore a quella francese, la più alta d’Europa:
La spesa per interessi non è però purtroppo ignorabile, e questa porta l’Italia a un livello di spesa pubblica del 50,6% del PIL, qui superando ampiamento gli altri Paesi ( il 44,7% della Germania, il 44,8% della Spagna e il 46,9% del Regno Unito).
Viene anche fatto notare come la spesa procapite non sia superiore a quella di altri Paesi, anzi rimanendo inferiore a quella francese, naturalmente, ma anche tedesca e media europea:
Purtroppo però il tutto va rapportato al PIL pro-capite, che nel caso dell’Italia è sempre più inferiore a quello di questi Paesi.
Quello che più importa sono in realtà le differenze qualitative della spesa, e allora emerge come rispetto alla Germania noi destiniamo agli stipendi il 23,1% delle spese, ovvero il 10,5% del PIL, contro il 17,8% (7,6% del PIL) del Paese di Angela Merkel.
La Germania in questo modo può spendere un 1% in più in welfare e prestazioni sociali, ovvero non pensioni, ma sussidi ai più indigenti, a chi ha dei figli, agli asili, agli affitti. Se l’Italia potesse fare lo stesso si ritroverebbe con 15,7 miliardi in più di spesa sociale da distribuire
Un’altra voce fondamentale in questi anni di crisi sono stati gli ammortizzatori sociali, con una crescita del 11% tra il 2013 e 2014. E’ questo un fatto che si verifica in ogni Paese in occasione di una crisi, in modo quasi automatico, il punto però ancora una volta è qualitativo, ossia quanto siano efficaci questi ammortizzatori, che nel caso italiano consistono principalmente in cassa integrazione, che spesso non risolve problemi occupazionali, ma li congela e perpetua.
Anche per questo sono indispensabili riforme apparentemente a costo zero, ma che avrebbero un impatto decisivo sulla spesa pubblica così squilibrata in Italia.