L’Europa procede verso una nuova recessione e l’Italia sembra più indietro di tutti
Le borse galleggiano nel corso dell’ultima settimana lavorativa: i dati macro rilasciati durante l’ottava non sono stati disastrosi come è successo spesso negli ultimi mesi, ma restano piuttosto depressi soprattutto nell’area euro.
La Germania, ad esempio, è riuscita ad evitare una recessione in senso tecnico (definita come due trimestri di decrescita consecutivi), me è difficile gioire per un avanzamento dello 0,1%, specie in un quadro economico deprimente per l’intera Europa.
Non va dimenticato che l’Italia è l’unico Paese insieme a Cipro ad essere in recessione (la Grecia è riuscita a effettuare un rimbalzino dopo sei anni di segno meno), e che a meno di mutamenti importanti in segno positivo per l’economia continentale e globale, il destino del Bel Paese rischia di essere piuttosto fosco.
Vi sono probabilità importanti che gli investitori istituzionali (banche soprattutto, non solo straniere, ma pure italiane) stiano cominciando a ripulire i propri bilanci di potenziali bombe ad orologeria: Intesa Sanpaolo, ad esempio, ha comunicato la scorsa settimana di avere in portafogli 13,9 miliardi di euro in meno rispetto alla fine del 2013 (in poche parole la banca italiana ha tagliato di più di un quarto della propria esposizione verso l’Italia, anche se la durata media si è allungata a 3,5 anni).
Le istituzioni estere scaricano BTP e soci da almeno quattro anni, tanto che la quota detenuta da non italiani è scesa da sopra il 50% a sotto il 40%. Non si tratta di un dato particolarmente confortante.
L’Italia resta uno dei Paesi europei più a rischio per la sua incapacità cronica di disincrostare il proprio sistema economico, con riforme che attendono di essere fatte da decenni, travalicando circostanze negative più recenti come la recente crisi economica o la moneta unica, che hanno avuto solo il “merito” di sbattere in faccia al Paese la realtà.
Il quadro resta negativo per l’Italia, perché in mancanza di stimoli esogeni che ne trainino l’uscita dalle proprie sabbie mobili (in cui, ripetiamo, si è cacciata da sola), l’unica risposta possibile è modernizzare il Paese, cominciando quantomeno dalle riforme a costo zero, come le liberalizzazioni e il giro di vite sui poltronifici di aziende ed enti pubblici (queste ultime parte di una sempre più mitologica spending review).
Purtroppo queste riforme richiedono un tempo di transizione che i governi non vogliono far pagare ai cittadini per non perdere consenso elettorale, e continuano a propinare improbabili formule magiche (come il reddito di cittadinanza) oppure pura e semplice aria fritta (per esempio un taglio delle tasse da 18 miliardi lordi – in soldoni dimenticando di dire che vengono aumentate altre tasse, sicché il taglio delle tasse, se c’è, è molto inferiore).
Si punta tutto su trascinamenti esterni come il QE di Mario Draghi o i 300 miliardi di investimenti di Juncker, che sono a loro volta formule magiche ed aria fritta. Queste ed altre misure (come ad esempio un aumento della spesa pubblica tedesca) permetterebbero certamente di tenere a galla l’Italia, ma non certo di far uscire il Paese da questo pantano secolare. È bene ricordarlo.
L’agenda macroeconomica ha visto lunedì la caduta del prodotto interno lordo giapponese, in contrasto con attese che ritenevano un rimbalzo rispetto al trimestre precedente. Il Giappone entra quindi in recessione tecnica per via soprattutto della debolezza del suo mercato interno, prosciugato dall’inflazione e dall’aumento delle tasse sulle vendite. Ciò potrebbe spingere il premier Shinzo Abe a portare il Paese alle urne per cementare il proprio potere e rilanciare così la sua Abenomics. Sempre lunedì la produzione industriale americana ha confermato le attese con una crescita dello 0,2%.
Martedì l’indice ZEW tedesco dovrebbe mostrare che il sentiment degli investitori istituzionali tedeschi resta incerto, con una lettura attesa poco superiore a quota zero, che separa l’ottimismo dal pessimismo.
Mercoledì l’immobiliare statunitense dovrebbe continuare a mostrare lievi segni di crescita, ma gli occhi degli investitori saranno puntati soprattutto sulle minute dell’ultimo meeting del comitato per la politica monetaria della Fed.
Giovedì gli indici dei direttori per gli acquisti dovrebbero continuare a confermare la situazione già rilevata negli ultimi mesi, ovvero un centro dell’Europa in affanno ma in lieve espansione e una periferia in contrazione. L’Italia attende gli ordini all’industria, che si spera possano portare un po’ di ottimismo che finora è mancato in questo settore. Gli USA dovrebbero registrare una lieve crescita dei prezzi che non dovrebbe preoccupare la Federal Reserve, poiché il target di inflazione non dovrebbe essere ancora toccato. Le richieste di sussidi di disoccupazione dovrebbero essere ancora una volta stabili sotto le 300mila unità, mentre l’indice che misura lo stato di salute del distretto di Philadelphia dovrebbe registrare una lieve contrazione rispetto alla rilevazione precedente, pur rimanendo in territorio positivo.