La sorpresa, lo stupore, il risalto mediatico che accompagna alcune decisioni dei giudici a proposito di reati commessi online è, probabilmente, uno dei segni più tangibili dell’analfabetismo e dell’arretratezza digitali diffusi nel nostro Paese.
Sintomatico ed eclatante di questa amara conclusione è il caso della recentissima Sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha affermato un principio di disarmante semplicità: offendere la reputazione di qualcuno attraverso un social network pur senza fare il suo nome può integrare gli estremi della diffamazione laddove il soggetto offeso è identificabile da una cerchia più o meno ampia di persone.
Stampa, televisione e media tradizionali ed online stanno dando straordinario risalto alla notizia che, in poche ore, è rimbalzata alla velocità della luce su tutti i principali social network come se si trattasse di una clamorosa novità destinata ad incidere in modo rivoluzionario sul rapporto tra gli italiani e la Rete.
In realtà, a quanto si apprende dalle prime agenzie che hanno lanciato la notizia della Sentenza, nella vicenda sulla quale la Corte di Cassazione si è pronunciata, un maresciallo della Guardia di finanza, attraverso un aggiornamento di status sul proprio profilo Facebook aveva dato del “raccomandato” e “leccaculo” ad un suo collega che gli aveva “soffiato” il posto.
Difficile, in un’ipotesi di questo genere, sorprendersi della decisione della Cassazione che, dimostrando di conoscere Internet meglio di quanto, evidentemente, non lo conoscono molti commentatori e giornalisti che si stanno occupando della questione ed il diritto di quanto non lo conoscessero i Giudici della corte d’appello militare che avevano assolto il maresciallo, si è limitata a ricordare che il soggetto offeso era soggetto facilmente riconoscibile essendo individuato in una realtà circoscritta come la rete sociale di appartenenza del maresciallo che lo aveva offeso e che, pertanto, quest’ultimo doveva ritenersi responsabile della sua diffamazione.
Dov’è la notizia?
Se urlo in una piazza che tizio, mio collega è un “leccaculo” ma senza farmi riconoscere, senza avere idea che chi mi sta attorno potrebbe conoscere me ed il destinatario della mia offesa e, dunque, senza rendere riconoscibile Tizio le mie urla potrebbero essere considerate uno “sfogo”, privo di ogni reale volontà offensiva ma se faccio altrettanto sul mio profilo Facebook, consentendo a chiunque di riconoscermi, identificare l’ambiente in cui lavoro e, di conseguenza, il destinatario della mia offesa in pochi click evidentemente la questione è diversa.
Il destinatario delle mie offese diventa identificabile ed è statisticamente assai probabile che nella mia “cerchia di amici” vi sia qualcuno che conosce – o, almeno, riconosce – entrambi e tanto basta, da sempre e non da oggi, perché la mia condotta possa ed anzi debba essere giudicata diffamatoria.
Eppure la vicenda ha fatto notizia quasi si trattasse dello sbarco dell’uomo sulla luna visto con gli occhi degli uomini che nel 1969 non immaginavano avrebbero assistito – attraverso le TV in bianco e nero – a scene di quel tipo, tanto presto.
Oggi non fa più notizia neppure il “turismo spaziale”.
Eppure anche Internet – allora Arpanet – è nata nel 1969.