Film ‘La Spia’, A Most Wanted Man: l’anomala spia dal volto di Philip Seymour Hoffman
È un destino amaro, a volte cinicamente beffardo, quello che spetta a chi si vede consegnare “pesanti” responsabilità.
Scelte che possono trasformare la vita di una comunità mal si conciliano con una tensione costante, e hanno spesso una controindicazione micidiale: l’isolamento.
Günther Bachmann (Philip Seymour Hoffman) coordina un nucleo anti-terrorista che opera ad Amburgo, città tedesca storicamente luogo d’immigrazione, pesantemente minata da un sentimento strisciante e invasivo di diffidenza, all’indomani dell’11 settembre.
È un’istantanea plumbea, eppure densa, quella che ci offre Anton Corbijn con il film La Spia – A Most Wanted Man.
Spedito ad Amburgo per “espiare” i passi falsi del passato, Bachmann si divide equamente tra la passione per la bottiglia, e quella per il suo lavoro. Con tenacia segue le tracce di un sedicente filantropo, i cui movimenti sconfessano spesso le sue manifeste, lodevoli, intenzioni. Deciso a mettere in fila gli indizi pazientemente raccolti, è costretto a fare i conti con l’arrivo in città del russo-ceceno Issa Karpov (Grigory Dobrygin). Quale sarà il ruolo giocato dall’uomo nella vicenda? Utile pedina o mina vagante? Günther Bachmann ha intenzione di andare fino in fondo per scoprirlo.
La spia – A Most Wanted Man è ispirato al thriller dello scrittore John Le Carrè, scandito dal tiro di fuoco incrociato tra intelligence tedesca e statunitense. Entrambe sono così instancabili nel setacciare Amburgo alla ricerca di probabili aspiranti attentatori, da rischiare di trasformare l’importante compito in una sterile caccia alle streghe.
La pellicola “fotografa” una società sospettosa e guardinga, ai limiti della paranoia. Mai abbassare la guardia. Guardarsi le spalle, sempre. E se necessario tradire, prima che siano gli altri a farlo. Günther Bachmann è l’anomalia del sistema. Una potenziale minaccia, forse più di un terrorista.
«Questo film riguarda molti temi, compreso, ovviamente, come i paesi si confrontano col terrorismo». Aveva dichiarato Philip Seymour Hoffman lo scorso gennaio, nel corso della presentazione di A Most Wanted Man al Sundance Film Festival. E con pochi, incisivi tratti aveva delineato anche la fisionomia morale di Günther Bachmann. «E’ un uomo che continua a fare la stessa cosa e ottiene lo stesso risultato. Ti arriva la sensazione che non può smettere. Si sente davvero che sta cercando di fare la cosa giusta, e in realtà credo che sia così. Ma il resto del mondo non condivide il suo modo di occuparsi dei cattivi del pianeta».
Forza ostinata e lunare solitudine. Questo è Günther Bachmann, e probabilmente la sua figura, l’ultima interpretata da Philip Seymour Hoffman prima della sua morte, ci restituisce anche molto del bagaglio umano dell’attore. Corpo arreso a un presente convulso che lo costringe all’affanno perenne, sguardo liquido impregnato di dolori non detti e sedimentati, ormai trattenuti per sempre. Possibile che sia tanto difficile difendere sé stessi, pur portando sulle spalle la sorte di milioni di persone? Difficile dire dove finisca il personaggio carreriano e dove cominci il vissuto di Philip. Quel che è certo è che la figura di Günther Bachmann è assolutamente “asimmetrica” rispetto allo stereotipo dell’agente segreto piacente e avventuroso ampiamente diffuso nell’immaginario collettivo.
“Non saprei da che parte iniziare quando penso a ciò che ci ha lasciato in eredità, che è immenso sia per portata che per profondità … Era il miglior caratterista che io riesca a immaginare. La sua forza consisteva in un’immersione totale nel ruolo e in una completa assenza di vanità. Al contempo odiava ciò che amava, che era la sua maledizione: si faceva a pezzi per le sue interpretazioni”.
Così Anton Corbijn ha ricordato Philip Seymour Hoffman. E a chi si è appassionato ai lavori dell’attore, probabilmente piacerà ricordarlo come nell’ultima scena del film, stropicciato e dolente, ma con indosso una compostezza impossibile da sgualcire.