I “futuri dell’Europa”: questo è stato il tema scelto dall’economista Jean Paul Fitoussi per la lectio magistralis che ha tenuto presso il Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di Genova mercoledì 19 novembre nell’ambito degli Incontri di Economia e Finanza Agostino Passadore.
A detta del professore, l’Europa – e nello specifico l’Unione Europea e l’Eurozona – rappresenta una “strana costruzione” che è stata colpita da un “virus” che ne impedisce il funzionamento democratico: infatti i cittadini conservano formalmente il diritto di cambiare governo ma non hanno alcuna possibilità di cambiare politica, che è sempre la medesima cantilena del pareggio di bilancio e di un basso livello di inflazione. L’Italia, secondo Fitoussi, ne è uno degli esempi, in quanto Monti, Letta e Renzi avrebbero adottato la stessa (fallimentare) ricetta. La popolazione, tuttavia, è maggiormente interessata al tenore di vita e alla piena occupazione che non al far quadrare i conti.
Emerge così lampante il problema principale in Europa, quello della “deprezzazione” del futuro, ha asserito il professore, in un ottimo italiano condito con una simpatica vena francofona. Se le radici della costruzione europea erano eminentemente politiche – in quanto la messa in comune di carbone e acciaio, ossia dei “mezzi della guerra”, costituiva quanto di più politico si potesse immaginare per evitare conflitti futuri – oggi qualcosa non va: la recessione attuale risulta ancor più grave di quella degli anni ‘30, con una disoccupazione giovanile che in Grecia e in Spagna supera il 60% e in Italia segna il 45%. Fitoussi si domanda allora come sia possibile accettare una situazione simile. Di fatto è insostenibile e quando la gente perde il futuro c’è il rischio che l’impossibile diventi possibile, ad esempio che il Front National di Marine Le Pen, con il chiaro intento di uscire dall’eurozona, possa diventare il primo partito in Francia, fenomeno per il quale l’economista dice di vergognarsi.
Cosa è accaduto in questi anni? I paesi dell’area Euro hanno abbandonato gli strumenti di politica industriale, fiscale, monetaria e di bilancio, pertanto i governi che avrebbero legittimità elettorale non detengono più alcun potere, perché con i famigerati “trattati” (Maarsticht, Lisbona, ecc.), gerarchicamente sovraordinati rispetto alle leggi nazionali, “si sono legati le mani”. D’altro canto vi è poi un “impero del vuoto” che ha a disposizione tutti gli strumenti ma completamente privo di qualsivoglia legittimità. L’economista sostiene che siano tre i cardini di questo “impero del vuoto”: la BCE, che può fissare i tassi di interesse, rappresenta una “costruzione sbagliata” che ha “indipendenza senza responsabilità”; il ministro della concorrenza della Commissione UE – ruolo ricoperto anche da Monti, che avrebbe compiuto “sbagli enormi” a detta di Fitoussi – detiene ampi poteri legislativi, esecutivi e giudiziari; infine il ministro che sorveglia i bilanci degli stati, il cui potere è altrettanto considerevole, soprattutto se “punta il dito contro i cattivi della classe”, atteggiamento apprezzato moltissimo nelle istituzioni europee, nelle quali spesso la reputazione si costruisce in questo modo.
I suddetti ministri però agiscono per conto proprio, autonomamente. Un’economia così scoordinata potrebbe forse andare bene “solo quando non piove” e, stando al professore, non sarebbero tanto gli shock specifici a metterla in crisi, quanto gli shock generali, perché l’assenza di coordinazione impedisce di reagire tempestivamente.
Numerosi sarebbero i vizi di costruzione delle istituzioni europee, a partire da quella paradossale condizione di avere un “debito sovrano” e una “moneta senza sovrano”: in pratica, gli stati si indebitano in una moneta su cui non hanno controllo, il che li espone continuamente al rischio di insolvenza. Una situazione presente solo nell’eurozona, in cui tutti i paesi vivono minacciati dallo spauracchio dello spread e da profezie che si autoavverano. Di fatto, argomenta Fitoussi, la Germania starebbe beneficiando di “una forma di sussidio”, perché viene a pagare meno per rimborsare gli interessi sul debito pubblico, mentre viceversa accadrebbe per gli stati periferici. Questo rappresenta un “fenomeno pro-ciclico”, che difficilmente può essere contrastato: il vizio all’origine è molto grave e non è stato risolto, pertanto la crisi potrebbe riapparire. Si pensava che una moneta unica avrebbe ridotto la speculazione sulle valute nazionali – e così è stato nei primi anni – tuttavia, per mancanza di coraggio da parte dei leader nazionali, non si è compiuto un passo considerato da Fitoussi come indispensabile: la messa in comune di un unico titolo di debito europeo.
Un altro vizio è dato dalla retorica della “competitività” e delle “riforme strutturali”, all’ordine del giorni in tutti i paesi UE. Ma la competitività – avvisa l’economista – è agli antipodi della cooperazione: se uno sale in classifica, qualcun altro deve necessariamente scendere. È la “beggar-thy-neighbour policy”, una continua guerra commerciale tra paesi che – afferma Fitoussi, evidenziandone gli effetti dannosi che ebbe negli anni ’30 – “non serve a nulla, ma ha costi tremendi per la popolazione”. Infatti la corsa alla competitività implicherebbe una catena di conseguenze: “meno costo del lavoro”, “meno salari”, “meno spesa sociale”, “meno prezzi” e, in ultima istanza, “deflazione”, uno spettro che potrebbe eternare la crisi per un altro decennio, come avvenuto in Giappone. “Se i governi non capiscono l’aritmetica, facciamoli studiare!” – grida a gran voce Fitoussi – “perché se diminuisce il denominatore PIL, il rapporto Debito/PIL non può che aumentare”, con il risultato opposto all’obiettivo prefissato dagli stessi governi. Da Oltreoceano, invece, proviene qualche segnale di ripresa, forse perché gli americani “sono meno dottrinari e più pragmatici”, il che avrebbe permesso loro di far scendere il tasso di disoccupazione, mentre nello stesso periodo in Europa ha continuato ad aumentare. È l’“ostinazione dottrinaria” dei teorici europei della nuova scuola classica ad essere indicata da Fitoussi tra i responsabili dell’aggravio della crisi; essa postula l’esistenza dell’homo oeconomicus “che non può innamorarsi, che vive in solitudine totale, senza spinte altruistiche”, sempre pronto ad ottimizzare le proprie “aspettative razionali”. Probabilmente non ci vuole neppure un professore della fama di Fitoussi per rendersi conto che un simile homo oeconomicus “non esiste”. Come se non bastasse, nel momento della crisi, il messaggio imposto ai governi nazionali è stato grosso modo questo: “tranquilli, tutto va bene, si tratta di un fisiologico scambio intertemporale a favore del futuro”. Anche la disoccupazione, che per questa scuola di pensiero è solo volontaria, sarebbe frutto di una scelta razionale della gente che preferirebbe stare a casa anziché lavorare.
Una teoria nata a stelle e strisce ma importata nell’Eurozona perché – insinua ironicamente il professore – “gli USA sono i più grandi esportatori di dottrine, a solo uso esterno”; sappiamo che “neanche essi credono a tutto ciò”, perché negli ultimi tempi hanno deciso di aumentare il deficit in misura anche considerevole.
Un altro problema scorto dall’economista è la perdita del senso delle parole che ha generato mostri linguistici come quello del “socialismo dell’offerta” propagandato da Hollande o quello della “sostenibilità finanziaria” che guarda solo al debito lordo, a prescindere dalle attività. Sulle conseguenze Fitoussi non ha dubbi: si va distruggendo non solo il capitale economico, umano e sociale, ma anche la democrazia che rappresenta quell’indispensabile “attivo intangibile”.
Questo è il costo che stiamo pagando, il costo economico e sociale dell’assenza di un’Europa politica. Come fare a risolvere la situazione? Per l’economista occorrerebbe “forzare il dibattito” in direzione di una sovranità europea, invitando i governi europei ad un atto di coraggio e di autentica collaborazione verso un federalismo europeo con istituzioni sovrane e compiutamente democratiche, che dovranno rendere conto ai cittadini.
Se Fitoussi continua a sperare nello spirito solidale dei popoli europei, tuttavia, dalle sue parole traspare anche una vena di pessimismo nei confronti dei politici: “Non ho mai sentito un governo che mi dicesse che avevo torto, però nessuno ha avuto il coraggio di dire certe cose” e di imporle alla Germania. “Hanno fatto in fretta il Fiscal Compact – nota il professore – ma non hanno tempo di occuparsi di occupazione”.
Infine, stimolato dalla domanda di uno studente, una stoccata finale è stata riservata al presidente della Commissione Europea Juncker, che l’economista ritiene “la scelta più cattiva che si potesse fare. Non è possibile che uno stato di 300.000 abitanti faccia una simile concorrenza al ribasso, mi domando perché altri paesi non abbiano dato uno schiaffo a questo bambino. Spero che Juncker venga cacciato, e velocemente!”