Femminicidio e violenza di genere: a chi giova l’ideologia femminista?
Ripubblichiamo questa intervista del 2013 a Fabrizio Marchi, fondatore del “Movimento Uomini Beta” e direttore della testata “l’interferenza”, una voce che non si arrende alla corale criminalizzazione del genere maschile e spiega perché la violenza non ha sesso.
Fabrizio Marchi, innanzitutto Le chiederei di raccontarci che cos’è Uomini Beta e perché avete sentito l’esigenza di fondare questo movimento.
Uomini Beta è un movimento di consapevolezza maschile nato alcuni anni fa. Noi riteniamo che tutti quegli uomini che non appartengono alle élite sociali dominanti si trovino a vivere oggi una condizione di subordinazione complessiva all’interno del sistema (capitalistico) dominante, sia come soggetti sociali (cioè in quanto appartenenti ai ceti sociali subordinati), sia come appartenenti al genere maschile. Una sorta di doppia condizione di oppressione, se vogliamo utilizzare il vecchio linguaggio femminista. La liberazione degli uomini “beta” (definizione metaforica/simbolica che abbiamo scelto appunto per distinguere questi uomini dai cosiddetti maschi “alpha”, cioè gli uomini appartenenti ai ceti sociali dominanti) da questa condizione costituisce l’orizzonte culturale e politico del nostro movimento.
A molti sembra assurdo un movimento simile. Se si parla di diseguaglianza di genere, solitamente si pensa che siano le donne ad essere in una posizione subordinata. Infatti, secondo le statistiche ufficiali, guadagnano meno degli uomini e oltre a ciò devono sobbarcarsi gran parte del lavoro domestico familiare non retribuito. Voi invece la pensate diversamente.
Questo è ciò che racconta la vulgata mediatica-politica dominante neofemminista post sessantottina (ormai largamente trasversale a tutto il quadro politico), oggi al potere. In realtà le cose non stanno affatto così. Qualsiasi uomo “normale”, che non sia cioè un divo del cinema o della televisione, un banchiere, un industriale o un calciatore, sa perfettamente che la sua reale condizione è quella di un uomo che non ha alcun peso specifico da mettere sul piatto della bilancia ed è costretto a “sbattersi” per vivere uno “straccio” di sessualità e di affettività all’interno di una relazione uomo/donna che di fatto è stata ridotta, concettualmente e psicologicamente, prima ancora che praticamente, ad una sorta di contrattazione mercantile non dichiarata, al “do ut des”, sottoposta alla legge della domanda e dell’offerta, del valore d’uso e del valore di scambio. A questo è stata ridotta la sessualità. All’interno di tale relazione gli uomini si trovano in una condizione di totale e assoluta dipendenza, psicologica e sessuale, a meno che, come dicevo, non appartengano alle élite socialmente dominanti, in grado quindi di esercitare un peso specifico all’interno della relazione (mercificata) tra MM e FF.
In altre parole, la sessualità femminile è stata elevata a “forma merce” per eccellenza, per lo meno in questa parte di mondo che ha superato l’“era del pane”. Le donne – questo è il punto di critica che noi muoviamo al “femminile” nel suo complesso e al femminismo – nella loro grande maggioranza, hanno interiorizzato e fatto proprio il messaggio capitalistico e si vivono esse stesse come una merce, come una “proprietà”, da un punto di vista psicologico e concettuale, come ripeto, prima ancora che pratico. E una proprietà non la si dona ma la si investe per trarne un utile, o tutt’al più la si aliena. Le donne (naturalmente non tutte, le sto considerando complessivamente come genere collocato all’interno dell’attuale contesto storico, sociale e politico) che una quarantina di anni fa erano state individuate come il soggetto di una possibile trasformazione rivoluzionaria, sono in realtà diventate alleate e complici del capitale, che le ha “promosse” perché ha compreso quanto la polarità femminile fosse funzionale al processo di autoriproduzione del capitale stesso. Un vero capolavoro culturale e politico spacciato per processo di emancipazione e “liberazione” delle donne. Allo stato attuale il femminismo è soltanto il coperchio ideologico di un “femminile” che ha scelto di aderire in questa fase storica alle dinamiche della ragione strumentale dominante; ciò che Marx definirebbe “falsa coscienza”. Ovviamente si può approfondire la riflessione sul tasso di consapevolezza di questo processo e/o sulla capacità pervasiva del sistema; comunque sia, tutto ciò viene abilmente camuffato con operazioni mediatiche e politiche scientemente orchestrate. Per rispondere a ciò che mi chiedeva, non è affatto vero che gli uomini guadagnino di più delle donne a parità di mansione e di qualifica. Vi sfido a trovarmi un contratto di lavoro che è uno dove una donna, a parità di mansioni e qualifica, sia meno retribuita di un uomo. È ovvio che cumulando la quantità di lavoro degli uomini da una parte e delle donne dall’altra, risulta che gli uomini guadagnano di più. Ma questa è una modalità ipocrita e sbagliata di operare, che è poi la stessa che si usa quando si calcola il PIL di un paese, in base al quale si determina il reddito medio pro-capite di una persona, ad es. di 5.000 dollari all’anno, ben sapendo che c’è chi ne guadagna 50 o 100.000 o 1.000.000 e chi neanche 1.000. È evidente che ciò è dovuto al fatto che l’ingresso massiccio e sistematico delle donne nel mondo del lavoro è avvenuto relativamente di recente (perché nel passato la divisione sociale e sessuale del lavoro all’interno della società capitalistica, e prima ancora, era differente da quella attuale), che una gran parte delle donne opta ancora per lavori part time, va in maternità, non fa straordinari, è occupata in mansioni molto meno pesanti e rischiose rispetto agli uomini e in settori più sicuri (pubblica amministrazione e scuola). Il lavoro per gli uomini rappresenta ancora una sorta di archetipo, un “dover essere”, nel quale finiscono per identificarsi completamente, a differenza delle donne per le quali il lavoro rappresenta la possibilità della “realizzazione”. Ciò spiega perché sono solo uomini, siano essi lavoratori salariati, piccoli o piccolissimi imprenditori o artigiani, a togliersi la vita per ragioni legate alla crisi economica. Ma questo non viene mai evidenziato. Così come viene clamorosamente occultato il fatto che a morire per incidenti sul lavoro siano pressoché solo uomini, e poveri, perché non si è mai visto un notaio (uomo o donna che sia) morire precipitando dalla sua scrivania, o un banchiere finire schiacciato sotto una pressa. Insomma, nella società che si dice essere dominata dall’oppressione maschilista e patriarcale, a morire sul lavoro continuano ad essere solo ed esclusivamente gli “oppressori” invece degli “oppressi”, anzi, delle “oppresse”. Il che è una contraddizione di proporzioni macroscopiche; è come dire che nell’Alabama o nel Mississippi di un secolo e mezzo fa, a morire nelle piantagioni di cotone non erano gli schiavi neri ma i padroni bianchi. La qual cosa è semplicemente assurda. Quella dei morti sul lavoro è quindi una tragedia di classe e di genere (maschile) che si fa finta, nel suo secondo aspetto, di non vedere. È poi evidente, per le stesse ragioni che spiegavo prima (la divisione sociale e sessuale del lavoro) che a tutt’oggi nelle sfere più alte della gerarchia sociale (ma solo in queste), ci sia ancora un maggior numero di uomini rispetto alle donne (tutti i processi sociali richiedono di un certo lasso di tempo), e che questo (sulla base del calcolo cumulativo a cui facevo cenno sopra) faccia sì che il reddito complessivo degli uomini risulti essere leggermente maggiore di quello delle donne. Ma è solo questione di tempo. Fra non molto anche questo gap verrà colmato e, secondo me, anche superato, come è già avvenuto in altri paesi nordeuropei e scandinavi e in particolare negli USA. Solo che in quei casi non si parla di discriminazione nei confronti degli uomini che sono meno retribuiti e occupati in minor numero rispetto alle donne, ma di “conclamata eguaglianza” e “raggiunta parità”… Due pesi e due misure.
Le lotte femministe e quelle del movimento operaio spesso si intrecciano. Anche se c’è stato un filone proudhoniano legato all’idea di donna come “angelo del focolare” (a cui dovrebbe essere vietato il lavoro non domestico, da riservare agli uomini), la corrente di pensiero marxista – a partire dai padri fondatori Marx ed Engels, per proseguire poi ad esempio con August Bebel in La donna e il socialismo – sembrò sostenere con forza che la lotta delle donne contro l’oppressione maschile sarebbe una forma di lotta di classe, così come lo sarebbe anche quella tra paesi del sud del mondo contro quelli del nord occidentale. Sfruttati contro sfruttatori. È possibile che si siano invertiti i ruoli? Come mai la “sinistra” pensa invece che sia giusto continuare a sostenere il femminismo?
È bene sottolineare alcuni aspetti. Marx, Engels, Proudhon, o altri, non erano dei semidei ma “solo” degli uomini con qualità intellettive straordinarie, che sono stati interpreti del loro tempo e del loro contesto. Nonostante le loro eccezionali capacità analitiche e interpretative, non potevano quindi prevedere ciò che sarebbe accaduto a distanza di secoli, quali trasformazioni strutturali sarebbero avvenute e quali nuovi attori avrebbero fatto la loro comparsa all’interno della società capitalistica. La QM (Questione Maschile) non si poneva all’epoca, per la semplice ragione che questa è il risultato della Società Industriale Avanzata. La questione non si poneva neanche, perché le condizioni erano tutt’altre. Però, a tale proposito, è bene chiarire un punto fondamentale. Il femminismo ha fatto un’operazione molto astuta, e cioè una sorta di “copia-incolla” della dialettica hegelo-marxiana, sostituendo al conflitto fra le classi quello fra i sessi, reinterpretando la storia dell’umanità a senso unico, come la storia dell’oppressione millenaria del genere maschile su quello femminile, giustificando ciò con il fatto che gli uomini erano proprietari dei mezzi di produzione mentre le donne ne erano escluse e quindi non godevano dell’indipendenza economica di cui godevano gli uomini. Si tratta di una clamorosa falsificazione della storia e della realtà. Innanzitutto perché gli uomini proprietari dei mezzi della produzione erano una infima minoranza rispetto al totale. La stragrande maggioranza degli uomini infatti, fino al primo dopo guerra, era composta da una massa di lavoratori salariati, di operai, braccianti, minatori, ecc. che conducevano una vita a dir poco durissima se non insopportabile in cambio di un salario che non era sufficiente neanche a sfamare i loro figli, per morire anzitempo di stenti, incidenti o malattie contratte sul lavoro. Come si può, in queste condizioni, parlare di indipendenza economica maschile? Chi è più oppresso, sfruttato o privilegiato? Il minatore che trascorre 14 ore in miniera o sua moglie che sta a casa a badare ai figli o a cercare di arrotondare le entrate familiari con altri lavori? Possiamo con ragionevolezza definire quegli uomini dei privilegiati rispetto alle loro mogli e queste ultime come delle “svantaggiate” rispetto ai loro mariti? Io credo in realtà che la stragrande maggioranza di quegli uomini e di quelle donne vivessero entrambi una condizione, sia pur diversa, di oppressione e sfruttamento. Il femminismo ha reinterpretato e ridotto questa complessità allo schema ideologico e manicheo che vede gli uomini sempre, comunque e dovunque oppressori e privilegiati, e le donne, sempre, comunque e dovunque oppresse e discriminate. Il che è falso sotto ogni punto di vista e ha come obiettivo quello di ridurre la storia del “maschile” ad una sorta di museo degli orrori, ad una storia di violenza, sopraffazione e stupro nei confronti del genere femminile. Una narrazione ideologica fondamentalmente interclassista, qualunquista, sessista e razzista, anche se camuffata da “progressista e di sinistra”, del tutto funzionale al sistema capitalistico che se ne avvale per disinnescare il conflitto sociale e per dirottare altrove l’attenzione delle masse.
Mi pare che Lei abbia detto che “il capitalismo è donna”, conferma? Tra i vari autori, vi rifate anche ad alcune riflessioni di Costanzo Preve, che solitamente distingue tra lotte per il suffragio universale (inserite in una forma del pensiero borghese) da quello delle cosiddette neo femministe sessantottine e post-sessantottine (post-borghesi ed ultracapitalistiche). Alle prime riconosce un ruolo “sacrosanto”, alle seconde invece, con il loro differenzialismo, rimprovera una copertura ideologica dei processi capitalistici di atomizzazione della società. Ci sarebbe un maschilismo mimetico e che va a braccetto con il femminismo differenzialistico. Il tutto rientrerebbe nell’ideologia dell’individualismo, diversamente da quanti affermano che le lotte del femminismo portino a conquiste per l’intera società. Il femminismo cosa ha conquistato, cosa deve conquistare? Il femminismo ha mai avuto un ruolo storicamente “progressivo”? Sino a quando? Si è superato qualche limite?
Occorre innanzitutto sfatare un mito costruito ad hoc per ragioni di opportunismo politico e ideologico. Il femminismo moderno, quello che nasce negli anni ’60 nei salotti “liberal” e nei campus universitari americani e successivamente sbarca in Europa, non ha nulla a che vedere con quelle che furono le lotte per i diritti sociali e civili delle operaie e delle donne proletarie dell’800 e della prima metà del ‘900, che naturalmente nessuno di noi si guarda bene dal mettere in discussione, anzi. Ma per fare questo non c’era bisogno di definirsi femministe, bastava essere socialiste, comuniste o anche semplicemente delle democratiche. Nessuna donna comunista o socialista dell’epoca si sarebbe mai sognata di dire che in “ogni uomo c’è un potenziale stupratore”, che “la violenza è (ontologicamente) maschile perché la sessualità maschile è intrinsecamente pervasiva e violenta”, che “le donne sono portatrici di una specificità che le rende migliori degli uomini”, che “il primo nemico delle donne è il proprio marito o il proprio compagno” . Il femminismo è un prodotto del capitalismo maturo e nasce oggettivamente come un’ideologia di genere (è nell’etimologia stessa della parola), fondamentalmente interclassista e sessista.
Preve è forse l’unico pensatore che ha avuto il coraggio (a parte noi) di criticare quello che lui stesso ha definito come “femminismo separatistico”. In realtà, a mio parere, il femminismo, in tutte le sue diverse correnti, converge nella sostanza, perché il comune denominatore è appunto il sessismo e l’interclassismo. La politica delle “quote rosa” nelle assemblee elettive e nei Consigli di Amministrazione, cioè nei luoghi dove si gestisce il potere (non certo nei cantieri edili o navali o nelle acciaierie dove continuano a lavorare e a morire solo uomini), è sostenuta dal cosiddetto “femminismo dell’eguaglianza”. Fra i due (femminismo della differenza e dell’eguaglianza) c’è un sostanziale gioco delle parti.
L’obiettivo strategico del femminismo è fondamentalmente lo stesso dell’attuale sistema dominante. Il capitalismo assoluto, cioè svincolato da qualsiasi altra istanza, sia essa politica, etica, sociale, filosofica, che non sia riconducibile alla forma merce, al capitale stesso e alla sua riproduzione in linea teorica illimitata, deve distruggere ogni possibile ostacolo sul suo cammino. Il “maschile” e il “paterno”, naturalmente concepiti e declinati nell’accezione negativa e dispregiativa del “maschilismo” e del “patriarcato”, costituiscono oggettivamente un ostacolo perché il concetto stesso di “padre” potrebbe rappresentare quel “limite” che delimita l’“illimitato”, ciò che maggiormente teme il capitalismo assoluto postmoderno che vuole una società “liquida”, dove le persone sono ridotte a “individui non sociali”, a monadi non comunicanti fra loro se non attraverso lo scambio mercantile e mercificato. Il concetto di illimitatezza viene artificiosamente scambiato per libertà (desiderio illimitato) quando in realtà è soltanto volontà di potenza. Il femminismo è un alleato e uno strumento ideologico e politico formidabile da questo punto di vista, perché serve a distruggere quel “paterno”, la cui funzione, nell’ambito della relazione padre-figlio (non mi riferisco solo al “padre” biologico ma, in termini concettuali, al “padre” inteso in senso lato, quindi anche il professore, il “maestro”, l’istruttore sportivo, il filosofo, chiunque in grado esercitare una “auctoritas” non riconducibile al capitale e alla “forma merce”), è proprio quella di delimitare l’illimitato. Senza questa funzione, che naturalmente non ha nulla a che vedere con la sua degenerazione, cioè il patriarcalismo ideologico o il concetto di “padre padrone”, si avrebbe solo il “kaos”, oggi occupato dalla “forma merce” (intesa in senso lato, quindi in primis l’ente umano), dalla sua produzione e dal suo consumo, dallo scambio mercantile e dall’accumulo di capitale.
Riguardo il vostro Movimento Uominibeta, c’è chi parla di misoginia 2.0; a questa accusa cosa rispondete?
Noi non capovolgiamo come un guanto il femminismo, non siamo interclassisti e non criminalizziamo l’intero genere femminile come fa, a parti invertite, il femminismo nei confronti del genere maschile. Per noi la questione di genere e quella sociale o di classe, sono oggi strettamente collegate. Lungi da noi voler fare una guerra fra poveri; questa è quella che ha scatenato il femminismo. Non possiamo però nasconderci la realtà, e secondo noi continuare a sostenere che l’attuale società capitalistica affonderebbe le sue radici nella cultura patriarcale e “maschilista” è assolutamente ridicolo. Equivale a sostenere che le origini della crisi economica globale in corso sono individuare nei rapporti di produzione feudali o nella mancata privatizzazione delle terre incolte… Un paio di anni fa, su un documento congressuale di un partito della “sinistra” (SEL) c’era scritto testualmente che «l’individuo, maschio e occidentale, compratore-venditore, è il protagonista del mondo-market post novecentesco». Ma è possibile avere ancora una simile rappresentazione della realtà, con milioni di uomini e padri gettati sul lastrico, espropriati dei figli, del reddito, della casa, della dignità, e migliaia che ogni anno muoiono sul lavoro? Ma quale potere, quale peso specifico, sono in grado oggi di esercitare nei confronti delle donne un operaio, un impiegato, un precario o un disoccupato che oltre ad vivere una condizione di marginalità sociale sono considerati come dei falliti, dei perdenti, privi di qualsiasi “appeal”?
Veniamo ad una questione che è all’ordine del giorno su tutti i giornali e su tutti i telegiornali: il femminicidio. Cosa c’è dietro a tutto questo? Il “nonviolento” Peppe Sini scrive sul manifesto del 29 maggio 2013 che “opporsi al femminicidio è oggi in Italia il primo dovere esistenziale, intellettuale, morale, sociale e politico […] poiché chi non combatte contro il femminicidio inevitabilmente ne è complice”. Voi la pensate diversamente, per quale motivo? Vi sentite complici dei femminicidi?
Il cosiddetto “femminicidio” è un’invenzione mediatica e politica. Vorrebbero farci credere che sarebbe in corso un genocidio del genere femminile da parte degli uomini, il che ovviamente è ridicolo, oltre che falso. Ogni anno in Italia vengono uccise circa 120 o 130 donne, a fronte di circa il quadruplo degli uomini, e soltanto la metà o poco meno di queste in ambito familiare. Stiamo parlando di una percentuale pari allo 0,5 per 100.000 abitanti. Un numero e una percentuale assolutamente fisiologici per un paese di più di 60 milioni di abitanti. In altri paesi europei, come la Francia, la Germania, la Svezia e la Finlandia , il numero delle donne uccise arriva ad essere addirittura anche quattro o addirittura cinque volte superiore (come il caso della Finlandia), come si evince dai dati riportati dal Ministero dell’Interno (che a sua volta li prende dall’Organizzazione Mondiale della Sanità). I dati indicati invece dall’ONU aggiornati al 2012 ci dicono addirittura che l’Italia è il paese europeo più sicuro per le donne, dopo la Grecia. È quindi evidente che siamo di fronte ad una vera e propria manipolazione della realtà. Il punto più alto di questa offensiva mediatica e politica è stato toccato nel momento in cui è stato sostenuto che la prima causa di morte per le donne è la mano omicida degli uomini. Sarebbe sufficiente un pizzico di buon senso per capire che un simile dato è semplicemente inverosimile ma scegliamo di pubblicare i dati dell’Istat che ci dicono che l’omicidio è la quart’ultima causa di morte per le donne in Italia. Eppure è stato detto e ripetuto su tutti i media che “ne uccide più l’amore che il tumore” (in realtà 120 contro 18.000). Questo è lo slogan coniato dagli esperti di “comunicazione” che trova eco puntualmente e sistematicamente su tutti i principali quotidiani e network nazionali, nessuno escluso. Perfino Amnesty International è stata costretta alcuni anni fa, a smentire questa notizia che sarebbe stata diffusa da fonti “non ufficiali e non scientificamente verificate”. La domanda che a qualsiasi persona di buon senso sorge spontanea è: se il “femminicidio” è un fenomeno reale, che bisogno c’è di ingigantire e falsificare in questo modo la realtà?
Anche Adriano Sofri è in prima linea nella battaglia contro il femminicidio. Se la prende persino con Loredana Lipperini che, nello smentire le tesi dei “negazionisti” (vi definiscono così), peccherebbe di “moderatismo”.
Sofri è uno dei mandanti morali dei cosiddetti “bombardamenti umanitari” sui Balcani da parte della NATO che hanno mietuto migliaia di vittime innocenti. Dopo aver contribuito a diffondere menzogne su menzogne ha invocato e sostenuto per anni l’intervento militare, cioè la guerra imperialista e neocolonialista degli USA e dei suoi satelliti europei, nella ex Jugoslavia. Parlare di “femminicidio” da parte sua è soltanto ipocrita, è un’altra delle operazioni che gli sono funzionali per diventare membro permanente del “salotto buono e politicamente corretto”, diciamo da assunto part time a tempo pieno …
Nel 2013 è stata approvata all’unanimità, prima alla Camera dei Deputati e poi al Senato della Repubblica, la Convenzione di Istanbul “sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenzadomestica”. Perché vi opponete ad essa?
È in questo clima, artificiosamente costruito, che si arriva alla ratifica all’unanimità sia da parte della Camera dei Deputati che del Senato, della Convenzione di Istanbul. Non si può neanche parlare di “voto bulgaro”, come si usa dire in gergo politico, perché quest’ultimo per essere considerato tale deve prevedere comunque una percentuale, sia pur minima, di voti contrari o di astenuti. Credo che bisogna sempre diffidare delle votazioni all’unanimità, senza neanche un voto contrario o un astenuto, e resto di quell’idea. Quando dall’estrema destra all’estrema sinistra si vota nello stesso identico modo, c’è odore di bruciato. La democrazia non si fonda sul principio di unanimità ma su quello di maggioranza e di minoranza. E quando si vota una legge o un provvedimento all’unanimità senza che ci sia neanche un deputato che presenti anche un solo emendamento (nessuna legge è perfetta né lo sarà mai), bisogna preoccuparsi, e seriamente, perché vuol dire che la democrazia stessa è in grave sofferenza. Infatti, anche solo da un punto di vista statistico, non è oggettivamente possibile che neanche uno/a fra i membri della Camera e del Senato non abbia avuto una sia pur minima critica, al limite anche solo di ordine tecnico, da muovere nei confronti di quella convenzione che peraltro, è importante e utile ricordarlo, è stata rigettata da molti paesi europei fra cui la Danimarca, che non è propriamente un covo di fanatici integralisti, razzisti e maschilisti ma un paese con solide tradizioni democratiche, socialiste, liberali e libertarie. Dobbiamo quindi chiederci come e perché ciò sia invece possibile. La risposta è molto semplice. Chiunque fra quei deputati e senatori avesse osato presentare anche un solo emendamento, sarebbe stato accusato del crimine più orrendo, quello cioè di coprire politicamente chi “uccide le donne in quanto donne”, alla stessa stregua di chi copre o giustifica l’assassinio di un ebreo in quanto ebreo o di un nero in quanto nero. È ovvio che in un “clima” di questo genere, nessuno, tanto meno chi ha ambizioni di carriera politica (ma il paradigma vale per qualsiasi ambito della società civile) si assume il rischio di avanzare una sia pur minima critica. Del resto, presentata in quel modo, chi è che voterebbe contro una legge per il contrasto alla violenza sulle donne? Nessuno, è evidente. Solo un “pazzo” o chi non ha nulla da perdere, potrebbe farlo. Con l’approvazione di questa Convenzione viene ufficialmente sancito che – cito testualmente – «la violenza contro le donne è di natura strutturale, in quanto basata sul genere», e che «la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini». Viene quindi ufficialmente sancito che la “violenza è maschile”, in quanto esercitata a senso unico dagli uomini nei confronti delle donne al fine della loro sottomissione. L’ipotesi contraria, cioè che anche gli uomini (così come minori e anziani) possano subire violenza da parte delle donne, non è nemmeno presa in considerazione, non è neanche contemplata. Con l’approvazione della Convenzione di Istanbul viene di conseguenza a cadere anche il (falso) concetto di ” violenza di genere”, una sorta di “foglia di fico”, di specchietto per le allodole che serve per camuffare ipocritamente il contenuto reale di quello stesso concetto. Da oggi non avrà più alcun senso esprimersi nei termini di violenza di genere per la semplice ragione che questa è già stata derubricata come “violenza maschile”. In questo modo la tesi, diciamo pure l’architrave ideologico, del femminismo più oltranzista, sessista e razzista, diventa legge dello stato. L’approvazione della Convenzione di Istanbul è solo il preludio a una stretta repressiva, a leggi liberticide, antidemocratiche e anticostituzionali che verranno presentate e approvate da qui a poco tempo, e che serviranno anche a scopi che vanno ben oltre quello dichiarato, in primis quello di scoraggiare e disinnescare il conflitto e l’antagonismo sociale. Ci saranno aggravi e inasprimenti di pena in caso di “femminicidio”. Ciò significa che uccidere una donna sarà considerato “più grave” che uccidere un uomo. Tutto ciò è intollerabile per qualsiasi persona dotata di coscienza civile e democratica.
Tuttavia le vittime di violenza domestica sono donne. Cosa rispondete a questa obiezione?
Non è affatto vero che solo le donne sono le uniche vittime della violenza domestica. La violenza non appartiene a un genere. La violenza è sempre un atto di dominio e di sopraffazione del più forte sul più debole e non è affatto vero che gli uomini siano sempre i più forti e le donne le più deboli. Questa è una vulgata superficiale e rozza. Alcuni nostri amici hanno di recente fatto questo studio, con gli stessi criteri utilizzati dall’Istat, e ne è emerso che tra i sei e i sette milioni di uomini hanno subito violenza da parte delle donne, sia fisica che psicologica. Ci sarebbe da discutere, ovviamente, se quei criteri siano validi, e secondo noi non lo sono. Resta il fatto che, utilizzando lo stesso metodo seguito dall’Istat, il numero delle donne che hanno subito violenza equivale allo stesso numero degli uomini che hanno subito violenza da parte delle donne. Il problema è che nessun istituto ufficiale ha mai fatto un’indagine sulla violenza subita dagli uomini da parte delle donne. Perché? Perché si da per scontato che la “violenza è maschile”, il che è solo un portato ideologico privo di ogni fondamento. Sappiamo perfettamente che le donne esercitano violenza sui minori e sugli anziani in misura addirittura superiore agli uomini, ma di questo non si parla. Il caso di una donna che uccide il proprio figlio viene affrontato solo esclusivamente o quasi dal punto di vista psicopatologico, mentre un uomo che uccide la propria moglie è sempre e soltanto un criminale assassino da condannare senza attenuanti, quando è evidente che siamo, in entrambi i casi, di fronte a due comportamenti criminali e psicopatologici nello stesso tempo. Ancora una volta due pesi e due misure.
Inoltre gli uomini sono vittime di una pseudo cultura “machista” (il miglior alleato del femminismo sessista) che gli impedisce di portare alla luce la loro sofferenza, che gli impone di recitare la parte dei “duri”, di coloro che stringono i denti senza lamentarsi o che “non devono chiedere mai”. Un uomo che si reca ad un commissariato di polizia per denunciare la violenza subita dalla moglie o dalla compagna non verrebbe neanche creduto e otterrebbe solo qualche sorriso beffardo dietro le spalle.
È necessario spezzare questo muro di gomma, gettare alle ortiche una volta e per sempre questi archetipi e questi condizionamenti di cui gli uomini per primi sono vittime. Liberarsi dalla vergogna e dal senso di colpa. Il femminismo sessista si fonda sulla colpevolizzazione generalizzata del genere maschile. Una colpa inemendabile, inestinguibile: fine pena mai. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la “liberazione” delle donne o tanto meno degli uomini. È solo un modo subdolo per perpetrare una nuova e moderna forma di dominio dell’uomo sull’uomo, in questo caso, della donna sull’uomo. Una donna, ma meglio faremmo a dire, un modello femminile, completamente funzionale e organico al sistema capitalistico di cui non solo non ha modificato i tratti essenziali, ma che addirittura ha contribuito ad alimentare e a rafforzare.
La cosiddetta “sinistra” ha scelto di sposare in toto l’ideologia femminista. Sappiamo bene che l’attuale “sinistra” niente altro è che la variante culturale del sistema capitalistico che è economicamente di destra, politicamente di centro e appunto, culturalmente , di sinistra. Il “politicamente corretto” è la nuova falsa coscienza del sistema, e serve ad uso interno ed esterno. Di quello interno abbiamo già parlato. Quello esterno è altrettanto evidente: andiamo a bombardare in Iraq, in Afghanistan, in Libia o dovunque sia per togliere il burqa alle donne. Chi oserebbe opporsi di fronte a tale nobile intento? Neanche i più convinti “pacifisti” della prima ora…
La vostra posizione è minoritaria. Molti forse la pensano come voi ma non hanno il coraggio di dirlo perché temono di essere etichettati con il marchio infamante di “negazionisti”, di “misogini” o di “maschilisti” (non si capisce per quale motivo “maschilista” sia un insulto, mentre chi si dice “femminista” ne vada fiero). Voi affermate di essere un “movimento maschile”, cosa direste a queste persone?
Gli uomini sono psicologicamente paralizzati. Come hai già detto tu, anche il solo osare criticare il verbo neofemminista e politicamente corretto, comporta la scomunica, l’esclusione sociale, il pubblico ludibrio, l’essere esposti alla gogna con le accuse più infamanti: negazionismo, maschilismo, misoginia. Dove non riesce il terrore riescono la vergogna e il senso di colpa, scientemente e sistematicamente instillati negli uomini in questi ultimi quarant’anni. Stanno crescendo e sono già cresciute generazioni intere di uomini “rieducati”, che hanno interiorizzato la “colpa”, incapaci di sviluppare e coltivare una criticità, un’autonomia e anche una capacità “antagonistica”, perché sono stati letteralmente demoliti dal punto di vista psicologico. Da questo punto di vista, il femminismo ha prodotto dei danni incalcolabili. Uno degli effetti di questo processo è che oggi gli uomini preferiscono suicidarsi piuttosto che ribellarsi. Casuale? Non credo. Trenta o quarant’anni fa, quando le condizioni economiche e sociali erano sicuramente migliori e più solide rispetto a quelle attuali, ci si ribellava, e per molto meno. Oggi che le condizioni per una risposta democratica ma forte e di massa ci sarebbero tutte, c’è il deserto. La distruzione dell’energia vitale maschile fa parte di questo processo di devitalizzazione del corpo sociale che, come dicevo prima, deve essere ridotto a una massa di consumatori omogeneizzati e indifferenziati.