Legge di stabilità: cosa rimane della prima Leopolda di Renzi?
Era l’autunno del 2012 e Matteo Renzi si presentava come l’outsider perfetto, il maverick della sinistra italiana, in lotta contro la ditta ed il vecchio apparato fortissimo, con l’intento di rottamarlo sia con il proprio volto nuovo e giovane, sia con idee innovative per un partito ormai diventato il difensore dello status quo in molti campi.
Era passato un anno dalla drammatica crisi dello spread del novembre 2011, e con l’avvento del governo di emergenza Monti si sentiva l’esigenza di un cambio del sistema Italia.
Renzi rappresentava coloro che volevano che questo cambio partisse da sinistra, dal PD.
E in effetti sembrava una scommessa molto azzardata che proprio dal PD potessero nascere ed essere poi proposte al Paese quelle istanze, decisamente più liberali, che in parte contraddicevano la storia e le tradizioni, non solo politiche, ma anche culturali e umane della sinistra italiana.
Le idee che portava affascinavano certo una minoranza del suo partito, quella che riteneva fosse venuto il momento di tagliare completamente i ponti con la tradizione post-comunista e democristiana di sinistra per creare un partito nuovo e moderno, di stampo europeo, se non addirittura nordamericano, che potesse parlare a ceti diversi dai soliti cui il PD si rivolgeva, quindi anche a imprenditori, autonomi, partite IVA, ma soprattutto aveva un potere di attrazione verso singoli che non si sentivano rappresentati dai partiti allora esistenti, nè rientravano nelle stantie categorie sociologiche della politica o addirittura votavano centrodestra.
Quelle primarie Renzi le perse, facendo, come disse per sdrammatizzare, la “prima cosa veramente di sinistra: perdere”, e già da questa battuta agrodolce si capisce quale fosse la sua idea della sinistra che in quel momento stava vincendo, una sinistra che poi alle elezioni perde, oppure, come poi è accaduto nel febbraio 2013, “non vince”.
Cosa rimane a due anni da allora? Con Renzi insediato a Palazzo Chigi a causa del risultato deludente di Bersani, dopo aver defenestrato Enrico Letta e vinto con uno stratosferico 40,8% le elezioni europee?
Cosa contiene la prima legge di stabilità del governo Renzi, e cosa ha conservato delle idee del Renzi della prima ora?
Innanzitutto vediamo le cifre della legge di stabilità, dopo le correzioni della Commissione Europea, che hanno portato il saldo a 5,9 miliardi:
Il confronto con il programma di Renzi del 2012 sarà oggetto di un dossier del Termometro Politico e comincia come prologo con l’analisi del lato riduzione delle uscite, ovvero la spending review, nonchè la parte relativa a privatizzazioni, dismissioni e lotta all’evasione.
Questo lo schema di paragone tra la legge di Stabilità e il programma delle primarie 2012
La domanda ora è: queste grandi discrepanze sono responsabilità di una eccessiva imprudenza nelle promesse del 2012, che erano solo pura e classica propaganda, o nel 2014 il governo Renzi è stato molto, troppo, tiepido e rinunciatario? Probabilmente sono vere entrambe le cose.
Sicuramente ci sono delle potenti scusanti: non solo il dovere del compormesso con gli alleati di governo e soprattutto con la sinistra interna del PD che rappresenta la vera opposizione nella maggioranza, ma anche e soprattutto la resistenza degli apparati dello stato, che come i sindacati, ma più silenziosamente ed efficacenmente di questi ultimi, hanno saputo fare da blocco per esempio nel portare i tagli aiministeri dai 6 miliardi promessi in primavera a meno di 2.
Del resto era stato lo stesso Cottarelli a lamentare la resistenza dei Grand Commis, ed è facile immaginare come questa non abbia colpito solo la possibilità di tagli centrali, ma anche di quelli nei gangli dell’amministrazione statale, per eempio nelle ASL in cui sarebbe possibile tagliare le forniture, quegli acquisti intermedi, così aumentati negli ultimi anni, specie appunto nella sanità.
Tuttavia appunto una risorsa come Cottarelli è stata messa da parte in modo così sbrigativo e facile per volontà di Renzi stesso, il quale d’altro lato non sembra avere neanche tentato un confronto o uno scontro, da cui non si tira indietro solitamente in altri contesti, per riuscire a strappare risparmi maggiori nel campo dei ministeri o del pubblico impiego, per raggiungere per eempio i 4 miliardi ipotizzati nel 2012. Nè è stata poi implementata una riduzione dei sussidi a pioggia e sostanzialment e inutili alle imprese, il cui taglio, sempre secondo i progetti del 2012, dovevano valere un 12-16 miliardi.
Anche a parità di saldo si sarebbero potuti evitare i tagli agli enti locali, che vanno oltre i miliardi ufficialmente tagliati a regioni e comuni, visto che includono per esempio il fondo per crediti inesigibili.
Dall’altro lato era stato certamente ingenuo pensare a quelle decine di miliardi così troppo facilmente recuperabili da privatizzazioni e dismissioni, anche se già nel 2012 i valori delle aziende partecipate erano già calati e le difficoltà si potevano prevedere.
Il punto è che a Renzi piaceva piacere, allora come oggi, e in realtà vi è un collegamento tra l’eccessivo ottimismo che doveva attirare consensi nel 2012, e la mancata incisività nei tagli di oggi, che serve a non alienarsi categorie con cui non vuole litigare, dalle aziende al settore pubblico, non creando quel clima di scontro sociale che vada oltre quello, limitato, che fa comodo, ovvero verso selezionate e numericamente ristrett eleite del vecchio PD e del sindacato contro cui sa di avere dietro di sè nella lotta un buon consenso di massa.