L’Italia si conferma in recessione all’inizio di dicembre: l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) ha confermato il calo dello 0,1% trimestre su trimestre, mentre ha peggiorato il calo sull’anno, dal precedente -0,4% a -0,5%. La settimana scorsa lo stesso istituto aveva “aggiustato” l’aumento dell’occupazione di settembre verificando che, secondo stime preliminari, a ottobre il numero degli occupati è calato di 55mila unità, stabile rispetto a un anno fa; sotto la presidenza Renzi l’aumento è stato di 51mila unità.
Il tasso di disoccupazione si è portato sopra il 13,2%, aggiornando i massimi da quando esistono le serie storiche (1977) e probabilmente anche quelli relativi ai decenni precedenti (per i quali non abbiamo dati comparabili). Si potrebbe dire che l’aumento del tasso di disoccupazione è un buon segno, poiché è possibile che persone che avevano smesso di cercare lavoro sono rientrati nelle statistiche (chi non cerca lavoro non risulta disoccupato), ma la debolezza degli occupati oscura non poco il quadro. Si aggiunga che le novità in arrivo in stabilità e Jobs Act probabilmente indeboliranno il quadro nell’ultima parte dell’anno, con licenziamenti anticipati al 2014, assunzioni e riassunzioni spostate al 2015, o comunque nei prossimi mesi, con il nuovo quadro legislativo.
Il problema principale, comunque, è un altro: il governo non sembra essere intenzionato a rendersi conto di quale sia la realtà. Poche settimane fa Renzi annunciava, in modo trionfante, l’aumento del numero di occupati (153mila) rispetto all’inizio del suo mandato, ma si trattava di rumore statistico prontamente affondato dall’ISTAT, come visto sopra.
Un altro grido della vittoria precoce deriva dal decreto Poletti: il ministero del lavoro, poco dopo la rilevazione ISTAT, ha annunciato che, nell’ultimo anno (al terzo trimestre del 2014), il numero dei contratti a tempo indeterminato è aumentato di 400mila unità, grazie appunto al medesimo decreto Poletti. Purtroppo i dati trimestrali, che il ministero non ha riproposto con la stessa enfasi, mostrano invece che il suddetto decreto c’entra poco e niente, visto che l’unico trimestre positivo è stato il primo del 2014 (e il decreto è del 20 marzo: difficile immaginare un boom di assunzioni in dieci giorni).
Il quadro non è “simpatico” neanche riguardo al futuro: la discussione sul Jobs Act continua, ma l’impianto che sembra voler uscire dalle camere è destinato ad aggravare il dualismo del mercato del lavoro in modo orrendo, poiché certe disposizioni (ad esempio il nuovo Articolo 18). Un’azienda, ad esempio, potrebbe avere (e probabilmente già li ha, con altri strumenti) lavoratori assunti con i vecchi contratti protetti e lavoratori assunti con i nuovi non coperti da precedenti tutele; bisognerà poi vedere se questo dualismo reggerà in tribunale se il datore di lavoro deciderà di licenziare per riassumere la stessa persona con il medesimo contratto.
Infine oggi i licenziamenti individuali sono piuttosto rari (molto meno quelli collettivi), e le riorganizzazioni aziendali avvengono soprattutto per allontanamenti volontari: un lavoratore protetto probabilmente deciderà di non allontanarsi per non perdere tutele, e quindi il risultato sarà una riduzione della mobilità. In sintesi, l’ennesima riforma del lavoro rischia di non cambiare granché nel meccanismo inceppato dell’occupazione.
Ultima nota da segnalare è il premier Renzi che si bea della previsione ISTAT relativa all’ultimo trimestre dell’anno, quando dovrebbe esserci la tanto attesa svolta. Ebbene questa stima parla di una crescita zero, di cui non si capisce come ci si possa rallegrare: ricordiamo che il PIL è rimbalzato in altre due occasioni negli ultimi sei anni, salvo poi sprofondare (siamo a tre recessioni consecutive).
Morale della favola: la disconnessione fra gli slogan e la realtà si sta ampliando. Non è male propagare ottimismo, il problema nasce quando si vuole credere (e far credere) di star procedendo sulla strada giusta quando i dati mostrano il contrario. Certamente dare speranza è importante per far ripartire il Paese, ma è necessario farlo con i fatti, non con gli slogan, e soprattutto imparare a verificare se le critiche sono valide, se sono necessarie correzioni, e non bollare chiunque osi obiettare come un gufo disfattista. La realtà, si ricordi, non sa cos’è la retorica.
Breve agenda macroeconomica con i maggiori market-mover. Mercoledì attesi i dati sugli indici dei direttori degli acquisti, attesi tutti sopra i 50 punti, a segnalare espansione: unica eccezione, la solita Francia; giovedì ultima riunione mensile della BCE (la prima nella nuova sede): attese eventuali novità sul quantitative easing; venerdì prima stima del prodotto interno lordo europeo (atteso +0,2% trimestrale, +0,8% annuale) e soprattutto il report sul mercato del lavoro USA (si attende un lieve miglioramento nel numero delle buste paga non agricole.