Pensioni e Renzi, non si toccano le pensioni d’oro, dimenticate le promesse delle primarie.
Tra i cambiamenti di verso che Matteo Renzi aveva promesso all’Italia vi era quello di dirottare risorse dalla rendita e dai settori più improduttivi ai giovani e a chi può generare crescita, le imprese, i lavoratori precari, gli ambiti più dinamici della società.
Se è stato facile alzare la tassazione sulle rendite finanziarie, sia che siano plusvalenze o i fondi pensione (che è più ardito definire “rendite”), vi è un campo in cui il governo Renzi era particolarmente sotto i riflettori, e su cui si sarebbe potuto misurare il coraggio riformista: le pensioni
Sappiamo come la legge Fornero del 2011 sia sotto attacco da parte di CGIL, Lega, che hanno anche appoggiato un referendum per demolirla, ma anche della sinistra PD. L’ex ministro Damiano sembra avere dedicato la sua vita alla causa, del resto è lo stesso che eliminando lo scalone Maroni fece spendere nel 2007 10 miliardi di euro da ministro del lavoro del governo Prodi.
Il rottamatore Renzi sembrava diverso, il desiderio di contrapporsi ai conservatorismi, che provenissero da destra o da sinistra, anche dalla CGIL, era la cifra del suo agire.
Nel corso della campagna per le primarie PD dell’autunno 2013, infatti, si sviluppa un dibattito nell’ala riformista del centrosinistra, in cui Gutgeld, ex manager Mc Kinsey, propone di chiedere un contributo di solidarietà del dieci per cento e un blocco della indicizzazione biennale a coloro i quali percepiscono una pensione con il sistema retributivo superiore ai 3.500 euro al mese. Questi pensionati ricevono una pensione ben più alta di quella percepita da chi è andato in pensione dopo la riforma Dini del 1996, che ha progressivamente eliminato la possibilità, che il sistema retributivo permetteva, di ottenere una pensione sulla base dell’ultima busta paga. Di qui il malcostume, allora in voga in ministeri e uffici pubblici, di concedere scatti di carriera a pochi giorni dall’uscita dal lavoro. Pare si tratti di 450 mila persone il cui costo per lo Stato è di 32 miliardi, e da cui si potrebbe quindi prelevare 3,2 miliardi, che salirebbero a 4 con il blocco dell’indicizzazione.
Tito Boeri risponde su La Voce indicando che viste anche le bocciature a provvedimenti simili in passato da parte della Consulta, questi prelievi devono essere progressivi e come per la tassazione IRPEF, agire solo al di sopra delle soglie eccedenti il limite deciso, dimostrando quindi che il gettito sarebbe solo di 1 miliardo.
Tuttavia era a favore di un intervento, per questioni di equità, e poteva essere l’inizio di un proficuo dibattito.
A marzo 2014, a pochi giorni dall’insediamento come premier accenna a voler chiedere un contributo alle pensioni d’oro, anche se non specifica quali si possano definire tali e quali no e rimane sospettosamente generico.
Passano le elezioni europee, nulla viene lasciato a turbare la luna di miele tra Renzi e l’elettorato basato sugli 80€, tuttavia il tema rimane.
Così economisti vicini o vicinissimi a Renzi tornano sull’argomento, tra questi vi è sempre Yoram Gutgeld, ora responsabile economia del PD dalla vittoria di Renzi e poi successore del non rimpianto Cottarelli alla spending review.
Nell’estate 2014 sulla Stampa ricompare la proposta di Gutgeld sulle pensioni, presentata come una versione più soft di intervento, solo oltre la soglia dei 90 mila euro, contro quella di 50-60 mila allo studio dei tecnici del governo Renzi, anche sulla base di un’ammissione su un intervento possibile fatta da Renzi a Porta a Porta, e che in teoria seguiva le indicazioni di Cottarelli per cui si sarebbero dovute colpire le pensioni “d’oro e d’argento”.
Si dice d’accodo con il provvedimento l’ex ministro Fornero e il sottosegretario all’economia Zanetti (di Scelta Civica) che raccomanda di applicare il prelievo solo alla differenza tra quanto percepito grazie alla quota contributiva e grazie a quella retributiva.
Tuttavia si scatena subito la valanga di no.
Le speranze riformiste vengono riposte quando non solo Fassina e Damiano della minoranza PD si dichiarano assolutamente contrari ma anche il liberal Morando annuncia di non ritenere l’intervento prioritario. Giunge infine la posizione di Renzi che dichiara che “le pensioni non si toccano”, chiudendo il discorso.
Cosa rimane quindi delle proposte dell’autunno 2013? L’unico intervento sarà quello che integra la legge Fornero facendo ricomparire quei commi scomparsi che vietavano di superare l’80% della media degli ultimi stipendi a chi rimaneva al lavoro anche dopo avere raggiunto i 40 anni di contribuzione a fine 2011. Potenzialmente 160 mila persone che sceglievano di rimanere fino a 70-75 anni al lavoro, solitamente alti funzionari statali, professori universitari, militari.
Piuttosto il ministro del lavoro Poletti, lo stesso che ad agosto aveva ripreso le proposte di colpire le pensioni più alte, ora sta pensando a un intervento che include una mini-pensione anticipata (6-700 euro al mese) erogata ai lavoratori cui manchino 2-3 anni ai requisiti Fornero e che poi verrebbe restituita in piccolissime rate dal momento in cui scatta la pensione piena. Questo per cercare di evitare il referendum sull’abolizione della legge Fornero appoggiato da Lega Nord e CGIL.
Siamo quindi passati da un intervento di riequilibrio che colpisse le pensioni altissime a favore del lavoro dei più giovani a uno in cui al contrario è prevista nuova spesa, anche se sotto forma di credito.
Perchè tutto questo? C’entra la psicologia e la politica.
Come vediamo dal seguente prospetto solo lo 0,82% dei pensionati percepisce più di 5 mila euro circa.
L’intervento proposto ad agosto avrebbe colpito pochissime persone, tuttavia che da un lato si trattava dell’alta burocrazia statale, la cui influenza supera spesso quella dei politici, come anche Cottarelli sa bene, dall’altro psicologicamente un intervento di taglio netto non solo sui pensionati futuri, ma su quelli attuali, indiccherebbe un precedente, che non vi sono diritti acquisiti, e che le regole possono cambiare in corso. E’ quello che succede a milioni di persone che perdono il posto, che sono costretti a contrattare salari inferiori e condizioni peggiori, ma il settore delle pensioni in Italia era stato finora sacro.
Il premier Renzi non si discosta da questa visione tradizionale, e certo non si può ignorare il sostegno al PD tra il segmento dei pensionati, come si vede da un recente sondaggio IPSOS:
Il Pd avrebbe un sostegno maggiore al 50% tra i pensionati, quasi il doppio delle preferenze che ha tra il 25 e i 34 anni , ovvero il segmento di età più in sofferenza occupazionale. E’ una differenza eclatante, e da sola eloquente più di qualunque analisi.