Magic in the Moonlight è l’ultimo lavoro di Woody Allen. Niente è più vero di ciò a cui vogliamo credere. Niente accende di più la mente e le emozioni dell’impasto tra realtà e finzione, in un gioco/confusione di piani che rende l’amore simile a qualcosa di sovrannaturale e magico, si potrebbe dire.
E in questo caso, ci sorprenderebbe il significato incredibilmente vasto (e ambiguo) che l’aggettivo può assumere. In questo “campo”, tanto minato quanto invitante, si avventura, ancora una volta, Woody Allen con il suo ultimo film, Magic in the Moonlight.
Berlino, fine anni Venti. Stanley Crawford (Colin Firth) rapisce la curiosità di un pubblico enorme sotto le spoglie di Wei Ling Soo, popolarissimo prestigiatore cinese capace di compiere i prodigi più incredibili. L’abilità con cui si teletrasporta o fa sparire un elefante è senza dubbio fuori dal comune, come pure l’astuzia che gli consente di smascherare a colpo d’occhio i ciarlatani desiderosi di plagiare i creduloni. Così, un amico e collega lo ingaggia per conto dei Catledge, facoltosa famiglia americana che vive sulla riviera francese, stregata dalla giovane Sophie Baker (Emma Stone), sedicente medium.
Stanley ha il compito di svelare la sottile e sapiente trama di inganni con cui la donna ha legato a sé i Catledge. Ci riuscirà? Il mix di razionalismo, cinismo e misantropia che lo contraddistingue si è già rivelato un’arma infallibile in passato, se non fosse che niente è come sembra. O forse sì…
Come ogni assassino (o meglio, serial killer) che si rispetti, con Magic in the Moonlight Woody Allen torna sul luogo dell’omicidio, e non fa che rendere ancora più visibili i tanti “indizi” già disseminati. Infatti il film (ri)batte “ossessioni” a cui è talmente affezionato, che sembra proprio non volersene separare. La celebrazione del sud della Francia, dell’epoca del jazz, della psicanalisi, e dell’eterna lotta tra scetticismo e fame di illusioni, tra la vita sentimentalmente nuda “figlia” del pragmatismo e la serenità dei colori pastello che regala qualsiasi genere di misticismo. Peraltro, in vari momenti del film Woody Allen parla di sé stesso (e forse anche a sé stesso) attraverso i personaggi.
Magic in the Moonlight è un po’ Match Point un po’ Grande Gatsby, insomma. E a questo effetto d’insieme contribuisce sicuramente anche l’indiscutibile resa estetica, merito della fotografia di Darius Khondji e dei costumi di Sonia Grande.
Tuttavia non manca una sorta di sottotesto nel film. La pellicola infatti lascia intravedere, in alcuni passaggi, il “cambio di pelle” che caratterizza la storia a cavallo degli anni Venti e Trenta. Così, ha scritto qualcuno, “Magic in the Moonlight apre sul palcoscenico di Berlino e davanti a un pubblico che a breve non vedrà più l’elefante nella stanza perché sceglierà di ignorarlo, ignorando col pachiderma una tragedia evidente. Nemmeno la magia può volatilizzare un elefante e una verità, la sparizione è soltanto un’illusione prodotta da un prestigio, una rimozione dal campo visivo che prima o poi ricompare”.
Come a dire che voler credere a tutti i costi è come una sbornia straordinaria (nel senso di fuori dal comune). Finito l’effetto euforia, bisogna fare i conti con i postumi, e sperare che non siano troppi ( o irreparabili) i cocci da raccogliere.