Le indiscrezioni sulle imminenti dimissioni del Presidente Napolitano hanno aperto le solite speculazioni su chi riuscirà ad essere il prossimo inquilino del Colle. L’assemblea dei 1008 grandi elettori non è molto diversa da quella che, il 20 aprile 2013, rielesse Napolitano; però è radicalmente mutato l’atlante politico: SEL e Scelta Civica sono in via di estinzione, il centrodestra è imploso, i grillini hanno perso per strada una ventina di parlamentari, il Partito Democratico ha trovato un leader carismatico che attira nel suo centro gravitazionale i movimenti che gli orbitano attorno. Inoltre sono cambiate, a favore del partito del premier, le maggioranze dei consigli regionali di Calabria, Friuli Venezia Giulia, Piemonte e Sardegna.
Così il centrosinistra, includendo i resti di Scelta Civica e SEL, conta quasi 590 delegati, il 58% del totale e, rispetto al 2013, ha ora i numeri per scegliere, al quarto scrutinio, il prossimo Capo dello Stato. Come già l’elezione del 2006 rivelò, un buon presidente -anzi, un ottimo presidente- può essere eletto a colpi di maggioranza. Allora Napolitano raccolse i voti dell’Unione, mentre la Casa delle Libertà gli oppose Gianni Letta e la Lega votò Umberto Bossi. Da quel giorno il Presidente ha ampiamente dimostrato di essere il miglior garante della Costituzione e delle Istituzioni repubblicane, al di là delle pretestuose critiche di cui è destinatario oggi.
È quindi ragionevole che il PD proponga, e in un certo senso imponga, il suo candidato, che non potrà non essere, da subito, Romano Prodi. Non esistono, infatti, né all’interno del centrosinistra, né dentro e fuori gli altri schieramenti, personalità in grado di competere col curriculum accademico e col cursus honorum del Professore nelle istituzioni italiane (ministro dell’Industria, Presidente dell’IRI, Presidente del Consiglio), comunitarie (Presidente della Commissione Europea) e internazionali (presidente dell’African Union-United Nations Panel on peacekeeping e United Nations Special Envoy for Sahel). Se per i benpensanti Prodi è il responsabile della tragedia italiana che iniziò con l’adozione dell’Euro, per osservatori e cittadini attenti il Professore è lo statista che, tra il 1996 e il 1998, ha guidato il miglior Governo della Repubblica. Da quell’esecutivo sono usciti due Capi dello Stato (Ciampi, ministro del Tesoro e Bilancio, e Napolitano, ministro dell’Interno), un Presidente della Corte Costituzionale (Giovanni Maria Flick, ministro della Giustizia) e i provvedimenti che hanno messo in sicurezza i conti pubblici dopo la crisi del 1992 (privatizzazioni, liberalizzazioni, riforma della Pubblica Amministrazione).
Prodi ha qualità, competenza e capacità per succedere a Napolitano, ha importanti esperienze di governo e prestigioso standing internazionale che manca a tutti coloro che gli si possono considerare alternativi. In tempi di instabilità politica, il ruolo del Colle è fondamentale, i suoi poteri “a fisarmonica” si ampliano: la debolezza del Parlamento, cui è legata l’azione del Governo, ha trasformato il Quirinale nell’interlocutore principale delle cancellerie straniere facendone il garante della tenuta istituzionale di un Paese non ancora guarito dai mali che, nel 2011, l’hanno portato sull’orlo della bancarotta. Lo stesso Napolitano ha correttamente notato che il Presidente della Repubblica è l’unico Capo di Stato europeo “al quale, oltre a rappresentare l’unità nazionale, la Costituzione attribuisce poteri in vario modo precisi e incisivi”.
Renzi ha preso decisioni molto discutibili quando ha scelto ministri, sottosegretari e Commissario UE: tutti, da Mogherini a Gentiloni, hanno profili anonimi che non offuscano il carisma del “Capo”. Per il Quirinale, però, il premier deve cambiare strategia, perché al Colle serve un leader in grado di ispirare una nuova primavera per il Paese, uno come Romano Prodi. Che il lungo incontro di ieri vada in questa direzione?
Andrea Enrici