Un augurio e una riflessione
Iniziamo il nuovo anno con una serie di buoni propositi, come tutti gli anni del resto, e con qualche riflessione.
Si leggono moltissimi commenti sulla sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, e in maniera sempre maggiore verso la democrazia. Uno degli ultimi studi fatto dall’Istituto Demos in particolare ha sfornato delle cifre che hanno evidenziato ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, questa situazione:
Abbiamo già scritto commentato questi dati QUI. Talmente chiari e lampanti da non ammettere repliche.
Tuttavia leggendoli bene ho iniziato a percepire che qualcosa non fosse corretta fino in fondo, una sensazione di scetticismo sempre crescente che doveva essere messa a fuoco. “Ci stiamo sbagliando ragazzi” cantava una trentina di anni fa Luca Carboni, e la sensazione che nella chiave di lettura di queste cifre ci sia una errore di fondo è fortissima. Senza nulla togliere alla bravura e alla professionalità di Demos (tra i migliori istituti di ricerca italiani) c’è qualcosa che non quadra, come se si fossero poste le domande senza accorgersi del rischio di renderle prone a risposte che più che opinioni sembrano luoghi comuni.
A parte che forse sarebbe stato forse utile chiedere cosa pensavano anche della famiglia come istituzione, c’è secondo me proprio un errore di fondo nella chiave di lettura dei risultati, che salta agli occhi se ci si sofferma meglio. Intendiamoci io credo che i risultati di Demos siano corretti ed il lavoro da loro svolto sia di alto livello, voglio solo dire che la chiave di lettura fatta finora non coglie il senso di questi numeri. Ecco quindi la critica del tutto costruttiva.
Come è possibile un numero così basso della fiducia nei partiti? Probabilmente se contiamo i militanti di partito superiamo il 3% della popolazione, questo vorrebbe dire che molti militanti non credono nel partito nel quale militano? E poi il 75% degli italiani vota per un Parlamento nel quale crede solo il 7%? Se avessero messo un numero negativo o meglio ancora un numero immaginario (moltiplicato per la radice quadrata di “-1” in matematica identificato con la lettera “i” davanti all’espressione) non sarebbe stato molto diverso.
Così come i numeri a proposito dello Stato. Capisco le associazioni di categoria, ma lo Stato siamo tutti noi, stiamo forse dicendo che non crediamo in noi stessi? Qualcuno ha già fatto questa riflessione in effetti, ma io voglio spingermi oltre.
C’era una battuta di Corrado Guzzanti che diceva più o meno “Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori”.
Al di là della battuta comincio a pensare che si, sia proprio una cosa da fare perché, da quello che si evince da queste cifre, il problema non sono le istituzioni o le associazioni, ma sono proprio i cittadini, quindi noi tutti (io non sono su alcun pulpito quindi sono incluso anche io nella critica collettiva).
Ci stiamo sbagliando ragazzi. C’è qualcosa che non va nel nostro modo di pensare di questi ultimi anni.
Nel suo discorso di fine anno il Presidente Napolitano ha parlato della “assunzione individuale della responsabilità” e credo che abbia colto nel segno e detto una cosa che nessuno dice da troppo tempo: lo Stato non è la mamma che ti fa trovare da mangiare, che ti pulisce la casa e ti lava i vestiti, lo Stato non ti cerca lavoro (anche se molti, soprattutto a sinistra, pensano che l’articolo 4 dica proprio questo), lo Stato non ti deve garantire successo e felicità per legge. Lo Stato siamo noi, quello che produciamo ci dividiamo, non esistono regali che piovano dal cielo, se una persona percepisce un reddito che non ha prodotto vuol dire che da qualche parte c’è qualcuno che non sta ricevendo il frutto del proprio lavoro. È solare e lampante eppure soprattutto sui social si parla di “reddito di cittadinanza”, di “salario minimo garantito”. Suggerisco la lettura del testo di questa canzone dei 99 Posse. No non è una parodia, dicono sul serio, pensano davvero che sia giusto che invece di pesare sulle spalle della mamma inizino a pesare sulle spalle dello Stato, e ci sono molte persone, specialmente tra quella che viene definita la sinistra attuale e tra i militanti del Movimento 5 stelle che pensano che sia una cosa sacrosanta. E chi dovrebbe pagare questi salari garantiti per giovani che passano la giornata a fare cariche con la polizia, a incendiare cassonetti, a fare occupazione di scuole e università e che perdono tempo fino alle 4 del mattino a “svariare” con gli amici? Vogliamo o non vogliamo permettere a questi esemplari giovani di poter offrire la pizza alla fidanzata la sera senza chiedere i soldi a mammà?
Quando ho detto che non ero d’accordo mi è stato risposto più o meno così: cinico, crudele, disumano, fascista. Amen.
Ovviamente non tutti quelli che vorrebbero un salario garantito svolgono le attività descritte nella canzone dei 99 Posse, resta la domanda: è giusto dare soldi a qualcuno per non fare nulla? Tra i tanti modi di usare risorse questo mi sembra il più improduttivo. Anche a chi dice che poi farebbero ripartire l’economia chiedo: “dando soldi ai giovani per comprare online roba prodotta all’estero?”. A parte le pizzerie quale altra parte dell’economia ripartirebbe?
A me alcuni ragionamenti di questo tipo ricordano più i “nipoti” dei fiori piuttosto che i nipoti di Luciano Lama (insieme a Berlinguer una grande icona da social network citata a sproposito dagli indignati in servizio permanente effettivo).
Mentre nel passato governi terrorizzati dalle proteste e dal terrorismo hanno regalato pensioni retributive e baby a milioni di italiani che hanno avuto anche la fortuna (buon per loro) di vivere molto più di quanto si pensasse e di quanto si era calcolato, di fatto facendo esplodere la spesa pensionistica di contributi che non hanno mai avuto un corrispettivo lavorato. Eppure se li si ascolta questi sono “diritti acquisiti”. Chiamiamoli col vero nome: privilegi acquisiti in nome della coesione sociale durante un periodo difficile. Privilegi che poi sono stati estesi un po’ a tutti, ognuno a modo suo, secondo il principio dell’ “aggiungi un posto a tavola”, del diamo dei soldi pure a questi così si stanno zitti, aumentando di volta in volta la spesa improduttiva semplicemente a causa delle pressioni dei vari gruppi. E il risultato quale è stato? Sono tutti più felici e contenti? La società è più coesa ed armoniosa? Si direbbe di no. Questo video del “Terzo segreto di satira” è molto divertente ed esplicativo.
Tutti vogliono di più, in una fame chimica (che rispecchia i sintomi comportamentali della dipendenza da una droga) di successo-ricchezza-potere. Una lotta sempre più difficile nel tentativo di conciliare la realtà con le aspettative, che porta a un grado sempre maggiore di infelicità come spiegato bene QUI, con una concorrenza sempre più ampia e spietata, col risultato che il vero nemico è il tuo vicino. Infatti il grosso delle cause civili e penali che intasano i tribunali sono faide tra vicini o colleghi.
Insomma la ricetta dell’aumento di spesa per “narcotizzare” una società (immotivatamente) in rivolta attraverso regali, non solo ha fatto esplodere la spesa pubblica (e quindi il debito, che troppi fanno finta di non capire che è quello che ci ha permesso di vivere per 40 anni al di sopra delle nostre possibilità come popolo e come nazione, chi più chi meno ci siamo dentro tutti) ma non ha nemmeno reso il tessuto sociale più coeso. E’ stato solo un drogaggio artificiale.
Forse perché la felicità non proviene dall’avere la pensione a 50 anni, ma di svolgere una attività che dia soddisfazioni e che piaccia talmente tanto da farlo fino a che la salute regge. Non ho usato la parola “lavoro” di proposito, perché troppo, soprattutto a sinistra pensano che si possa definire “lavoro” una attività che non produce nulla. Quello non è un lavoro è un “posto” (ah ma tutti ne hanno diritto lo dice l’articolo 4, quindi noi vogliamo un posto dove timbrare il cartellino e prendere uno stipendio fisso e sicuro alla fine del mese, in realtà l’articolo 4 parla del lavoro come di un “dovere a concorrere al progresso materiale o spirituale della società”, ma lasciamo perdere).
In Italia c’è una percentuale impressionate di giovani al di sotto dei 30 anni che non studia, che non lavora, che non ha prospettive e se ha sogni non sta facendo assolutamente nulla per realizzarli (NEET), e di chi sarebbe la colpa se tanti giovani in perfetta salute non fanno assolutamente nulla? La retorica pauperista da social network del “non possono permettersi una istruzione” ha francamente stancato. E’ assolutoria e soprattutto falsa. Molti di questi se volessero potrebbero trovare online tutti i libri i video e la documentazione che vogliono per imparare qualsiasi cosa, per capire quali sono le proprie attitudini ed aspirazioni e andare in quella direzione, almeno di provarci…
Invece niente, non fanno nulla pur avendo gli strumenti per farlo. 100 anni fa i giovani avevano una aspettativa di vita di molto inferiore e in tempi di carestia emigravano con la famosa “valigia di cartone tenuta con lo spago”, si rimboccavano le maniche e cercavano la propria strada nel mondo, conoscendo la vera fame. Ora invece sembra che ci sia un livello di schizzinosità incredibile e in molti non fanno altro che lamentarsi sui social, come se tutto gli fosse dovuto come se tutti intorno dovessero essere come la mamma alla quale gridare addosso se ha cucinato la pasta scotta.
E non è nemmeno vero che “ci sono persone più fortunate che nascono con un dono e ci sono quelli più sfortunati che non hanno le stesse capacità”. Ognuno di noi nasce più o meno con lo stesso numero di neuroni nel cervello, se poi qualcuno il cervello non lo usa per pigrizia o per mancanza di carattere la colpa è principalmente della famiglia (ma si potrebbe estendere anche alle istituzioni) che lo ha viziato e della scuola che non lo ha stimolato all’apprendimento.
Generazione viziata, ecco dove volevo arrivare, “siamo la gente il potere ci viziano”. Questo secondo me è quello che dicono i numeri trovati esposti nel grafico sopra. Siamo (anche io ne faccio parte) una generazione drammaticamente viziata con un fortissimo gap tra ciò che si è davvero e l’immagine che si ha di se, un gap ancora più ampio tra le aspettative e i risultati. Una generazione che non sa fare altro che lamentarsi di tutto e di tutti. Chi più e chi meno.
“Tacere bisognava e andare avanti” diceva la canzone del Piave, o se preferite una metafora calcistica “palla lunga e pedalare”, come diceva Nereo Rocco, non esistono scorciatoie affinché l’anno che sta iniziando sia un anno più felice di quello che ci ha appena lasciati.
Allora l’augurio per il nuovo anno, è quello di cambiare e di smetterla di lamentarsi e di cercare capri espiatori altrove, di assumersi ognuno di noi le proprie responsabilità con la consapevolezza che siamo la generazione potenzialmente più fortunata mai vista finora su questo pianeta, con l’aspettativa di vita più elevata (se ci pensate in soli 40 anni come è cresciuta e con quali miglioramenti della qualità dell’invecchiamento, secoli fa avrebbero scritto un poema che parlava di “patto col diavolo” per spiegare la cosa) e con la disponibilità di tecnologie che le generazioni precedenti potevano solo sognare.
Buon 2015 a tutti.