Non si è fatta attendere la risposta del governo di Parigi all’attentato terroristico che il 7 gennaio ha insanguinato la redazione del quotidiano satirico Charlie Hebdo e con essa tutta la Francia. A neppure ventiquattro ore dall’attentato, infatti, Parigi ha trasmesso a Bruxelles – come impone la disciplina europea della materia – lo schema di un decreto attraverso il quale il governo di Hollande intende affidare alla polizia postale francese il potere di ordinare – direttamente agli internet service provider – il blocco di interi siti internet ritenuti responsabili della pubblicazione di contenuti che istigano ad azioni terroristiche o ne fanno apologia.
Il decreto che prevede l’adozione delle stesse misure tanto in relazione alla lotta al terrorismo che in relazione a quella allapedopornografia online, esclude l’esigenza di qualsivoglia valutazione da parte di un Giudice ed autorizza il Ministero dell’Interno e, per esso, la polizia postale a compilare direttamente una lista di indirizzi di siti internet da spedire agli internet service provider francesi, intimando a questi ultimi di bloccare il traffico dei propri utenti verso tali siti, dirottandolo verso un’apposita pagina web che li dovrà informare della natura illecita del contenuto che stavano cercando di raggiungere.
L’ordine impartito dalla polizia postale agli internet service provider dovrà essere eseguito al massimo entro 24 ore. E toccherà alla stessa polizia – ancora una volta, quindi, senza alcun filtro di carattere giudiziario – revocare l’ordine di blocco qualora risultasse che un sito internet ha sospeso la pubblicazione dei contenuti ritenuti di matrice terroristica o pedopornografica. Si tratta, nella sostanza, di una soluzione sovrapponibile a quella già utilizzata, anche nel nostro Paese, per la lotta alla pedopornografia online che, tuttavia, la Francia, vorrebbe ora allargare ad una serie di reati dichiaratamente di opinione quali sono, appunto, quelli diistigazione o apologia di atti terroristici.
E’ difficile, naturalmente, davanti alle drammatiche immagini dell’attentato del 7 gennaio scolpite nella mente di ciascuno di noi e con nella testa e nel cuore ancora forte quella sensazione mista di rabbia e terrore che è umano provare davanti a simili tragedie, trovare la forza di criticare un governo che, con straordinaria tempestività, si dichiara pronto a varare nuove norme che hanno l’obiettivo di scongiurare il ripetersi, in futuro, di episodi tanto drammatici. Si ha, infatti, la naturale tentazione di cedere al principio macchiavellico secondo il quale il fine giustifica i mezzie non c’è, quindi, prezzo – neppure in termini di compressione didiritti e libertà fondamentali dell’uomo e del cittadino – che sia troppo caro davanti all’esigenza di bloccare il terrorismo.
Si tratta, tuttavia, di una prospettiva umanamente comprensibile ma politicamente sbagliata e non condivisibile. Non c’è paura né obiettivo che dovrebbe giustificare la rinuncia, da parte di un Paese democratico, alla tutela di una libertà fondamentale ed irrinunciabile come quella di parola, libertà che ha per naturale corollario che solo i giudici – eventualmente anche nell’ambito di procedimenti d’urgenza – possano ordinare la rimozione di contenuti dal web o il blocco del traffico diretto verso taluni contenuti. E’ – o dovrebbe essere – un principio sempre vero ma vero ancor di più quando – come nel caso in questione – all’origine di eventuali ordini di blocco vi è addirittura un presunto reato di opinione.
Non è, infatti, sempre facile – ed anzi non lo è nella più parte dei casi – distinguere l’opinione legittima, per quanto, talvolta, violenta o non condivisibile dai più, dalla manifestazione del pensiero di chi scientemente scrive o dice qualcosa con l’intento di istigare altri a commettere un atto terroristico o ne fa apologia. Tirare una linea di confine tra l’esercizio legittimo della libertà di parola e l’istigazione o l’apologia di un atto di terrorismo è un “esercizio” difficile persino per un giudice che sia chiamato ad assumerlo con i tempi ed i modi di un processo per quanto sommario.
E’ per questo che è sbagliato pensare di demandarlo ad un’autorità amministrativa come la polizia che, peraltro, ha competenze, esperienze e sensibilità ovviamente diverse da quelle di un Giudice e, comunque, non è chiamata ad assumere le sue decisioni nell’ambito di un giusto processo.
In questi termini, la risposta francese e la scelta di trasformare i providers in sceriffi del web, agli ordini delle sole forze di polizia, non convince e, anzi, preoccupa, apparendo una risposta che minaccia la libertà di parola sul web proprio in un momento nel quale il Paese rivendica, a gran voce, la libertà di parola drammaticamente e prepotentemente violata dai terroristi autori del massacro di Charlie Hebdo.
C’è da augurarsi che il tempo raffreddi le emozioni e porti consiglio al governo di Parigi e, soprattutto, che, in Italia, non ci si innamori – come troppo spesso è accaduto in passato – di una soluzione che in nome di un eccessivo e spiccio pragmatismo sacrifica diritti, garanzie e libertà che rappresentano l’infrastruttura democratica del Paese.