QE o non QE? (e perché le banche dovrebbero prestare all’economia reale?)
Settimana di incertezza sui mercati mondiali, per via dei soliti tre temi che domineranno (almeno) il mese di gennaio: le mosse della BCE, le elezioni in Grecia e il meeting del FOMC. Per quanto riguarda la BCE, le voci che provengono da Francoforte parlano di un QE (quantitative easing) in versione ridotta in arrivo nella riunione del 22 gennaio, in altre parole di una versione annacquata di un programma che già prima era ritenuto insufficiente a spingere l’inflazione verso il suo target del quasi-2%: il declino, specie nel tasso non-core (che comprende l’energia, ovviamente affossata dal tracollo del petrolio), è continuato secondo l’ultima rilevazione, ed appare aggravarsi anche nel centro dell’Eurozona.
Le domande cui Draghi e colleghi dovranno rispondere restano le solite: quanto comprare e soprattutto cosa comprare, visto che i programmi di acquisto e di iniezione di liquidità lanciati negli ultimi mesi non hanno molto aiutato. L’architettura del TLTRO non ha convinto le banche a rilasciare credito nel sistema economico (poiché ha probabilmente permesso loro di parcheggiare il denaro in altre “stalle”, invece di prestarli), mentre gli acquisti di ABS sono intervenuti in mercato troppo sottili per generare movimenti importanti.
Va ricordato che il QE potrebbe benissimo non rispondere alla domanda più importante: “Perché le banche dovrebbero prestare all’economia reale?”. Non è certo (o almeno non esclusivamente) una questione di avidità: le banche non prestano principalmente per due ragioni strettamente collegate. La prima è che i prestiti sono percepiti come troppo rischiosi: le banche vedono un rallentamento globale, vedono incertezze sia nei Paesi emergenti che all’interno dell’Eurozona (la Grecia, solo per esempio), vedono insomma eventi che remano contro la crescita, che potrebbero spazzar via i business in cui hanno investito, e quindi perdere soldi.
La seconda si riferisce ai requisiti patrimoniali delle banche: un prestito ad un’impresa “costa” più che un investimento in titoli di Stato. Detto altrimenti, le banche, a parità di denaro investito nelle due categorie, devono mettere da parte più soldi se prestano alle imprese e meno se invece prestano allo Stato.
Molte banche sono già vicine ai limiti (alcune ne sono pure al di sotto), per cui aumentare i prestiti all’economia reale implica 1) chiudere altri prestiti in essere (il che non aiuta ad aumentare il credito all’economia) e/o 2) aumentare il proprio capitale, ovvero chiedere soldi agli azionisti, i quali, sempre per il primo punto (“c’è la crisi”) potrebbero non volere o non potere iniettare altro denaro nelle banche.
Inoltre i requisiti patrimoniali potrebbero venire ulteriormente ristretti in futuro, per cui anche banche oggi (teoricamente) salve, domani potrebbero essere costrette a togliere soldi dall’economia reale o a chiedere soldi ai propri azionisti.
Detto altrimenti, le autorità europee continuano a dare soldi alle banche e intanto a chiederli indietro. A questo si aggiunge il solito problema di frammentazione dell’area euro (ovvero si preferisce investire in attività nel centro dell’Eurozona piuttosto che nella periferia, dove i tassi richiesti sono più alti).
Si tratta di problemi che potrebbero non essere risolti da un QE o da un mini-QE: l’Europa non è né gli Stati Uniti, né il Giappone, per cui gli effetti della prossima mossa di Draghi rischiano di essere limitati (too little, too late, come ripetiamo su queste pagine da mesi – se non anni). L’agenda macroeconomica ha visto per martedì la produzione industriale italiana, “migliorata” su base mensile (+0,3%) pur confermandosi negativa su base tendenziale (-1,8% rispetto all’anno scorso).
Mercoledì attesa per l’indice dei prezzi al consumo per l’Italia: i prezzi dovrebbero risultare fermi sia su base mensile sia su base annua, sia sul dato ISTAT che quello armonizzato europeo (in quest’ultimo caso, su base annua si aspetta un calo di un decimo di punto). La produzione industriale europea dovrebbe essere cresciuta dello 0,2% a novembre, ma è comunque in ribasso rispetto all’anno precedente per lo 0,8%. Negli USA verranno pubblicate le vendite al dettaglio peril mese di dicembre (atteso -0,1% mensile) e soprattutto il Beige Book, a due settimane dal meeting della Fed, che ne leggerà i contenuti con interesse per prendere le sue decisioni di politica monetaria.
Giovedì jobless claims USA attesi sempre al di sotto delle 300 mila unità. L’indice della manifattura del distretto di Philadelphia dovrebbe mostrare una lettura di 20 punti, positiva ma in calo rispetto alla rilevazione precedente (tuttavia rivista al rialzo).
Venerdì giornata di inflazione tedesca: attesi prezzi fermi su base mensile e in aumento di appena lo 0,2% su base annua (0,1% armonizzato UE, sia mensile che annuale). Per l’Eurozona il dato annuo è atteso a -0,2% e a -0,1% quello mensile (tuttavia il dato core, che non comprende l’energia, i cui prezzi sono depressi dal crollo del petrolio, dovrebbe mostrare un aumento su base annua dello 0,8%).
Lo stesso tasso negli Stati Uniti (+0,7% annuo, -0,4% mensile) mostrerebbe che i prezzi sono ancora lontani dal target della Fed, raffreddando (ancora una volta) i timori di un aumento dei tassi di interesse prossimo venturo (per ora spostati – almeno – alla primavera).