Big Eyes, l’arte è autenticità mascherata da finzione
Amore uguale sacrificio di sé. Per moltissimo tempo è stato questo uno dei pilastri dell’educazione sentimentale delle donne. Così, ci hanno raccontato che amare vuol dire annullarsi per altro, che “fondersi” è cosa buona e giusta, mentre custodire uno spazio solo per sé è sintomo di scarsa o nulla femminilità. Poi è arrivato il femminismo, e fortunatamente granitiche sciocchezze del genere sono state rimesse in discussione, dando un salutare scossone ai rapporti tra le persone, e alla società. Big Eyes, il nuovo film di Tim Burton, racconta una storia molto emblematica in tal senso, quella di una donna che, per esprimere appieno sé stessa e il proprio talento, ha il coraggio di buttare all’aria un sodalizio sentimentale e professionale apparentemente a prova di bomba.
San Francisco, 1958. Margaret Ulbrich (Amy Adams) abbandona il primo marito, e parte con la figlia alla volta di un futuro ancora abbastanza nebuloso. Si trova così a ricominciare quasi da zero: il suo curriculum è composto infatti esclusivamente da alcuni ritratti di bambini dagli occhi sorprendentemente grandi e, per certi versi, inquietanti. L’incontro con Walter Keane (Christoph Waltz), uomo affascinante e vulcanico, nonché aspirante artista dallo stile diametralmente opposto al suo, rappresenta per lei l’inizio di una nuova stagione, personale e lavorativa.
La complementarietà sembra essere il punto di forza della coppia. Tanto è peculiare e inconfondibile la creatività della donna, tanto le opere del secondo sono ordinarie e dozzinali. Tanto è riservata lei, tanto è istrionico lui. Keane si rivela un “animale da palcoscenico”, il miglior biglietto da visita per le opere della moglie, che, grazie a un lavoro di marketing e pubbliche relazioni fin troppo solerte, diventano ben presto amatissime e popolari.
I consensi e i successi riscossi hanno però un prezzo molto salato per Margaret, che è costretta a rinunciare all’autenticità, nel pubblico come nel privato. Walter ha spacciato i lavori della moglie come suoi, fagocitandone il talento, e rischiando di fare altrettanto con la sua vita. Così Margaret fa la scelta più scomoda: chiede il divorzio … e che venga ristabilita la verità sulla sua arte. Ma come vincere la vuotezza di una finzione tanto ben confezionata quanto fragile? Lasciando che sia la fattività della creatività a parlare, forse.
Con i suoi colori pastello incredibilmente saturi da risultare abbaglianti, Big Eyes vuole restituire l’euforia e l’entusiasmo che circonda il periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando emerge una nuova concezione dell’arte. Mercificazione e massificazione diventano così le parole d’ordine, gli imperativi categorici di una nuova leva di creativi, di cui Warhol sarebbe diventato l’emblema. Contemporaneamente, la società viene attraversata da molteplici fermenti e dirompenti consapevolezze. Le donne rivendicano il proprio spazio, nei rapporti e nel lavoro.
Stufe di essere liquidate come “gli angeli del focolare”, comprendono che la felicità è possibile solo ascoltando sé stesse e sviluppando la propria individualità. Ma evidentemente questo non è semplice, se storicamente il patriarcato ha attraversato indenne secoli e secoli di storia.
Tim Burton ha costruito il biopic Big Eyes a partire da una storia che conosce sicuramente molto bene, e per la quale ha attinto da materiale di prima mano. In passato infatti il regista infatti ha acquistato alcuni lavori della vera Margaret Ulbrich. Tuttavia, il film non riesce a essere all’altezza dei suoi precedenti, rivelandosi poco efficace e incisivo, a causa di uno stile troppo didascalico e concentrato più a ricostruire la vicenda privata della coppia, che non il contesto, artistico e sociale, in cui i due si muovono.
In conclusione, l’ironia non graffia, e Christoph Waltz “calza” a fatica il personaggio di Walter Keane, soprattutto nel finale, quando la sua interpretazione subisce le sbavature più marcate.
D’altra parte, almeno un paio di personaggi collaterali che sarebbero potuti risultare interessanti (il giornalista e il critico) non vengono costruiti con sufficiente cura. Al contrario, Amy Adams si dimostra davvero credibile nel ruolo di Margaret, e nel suo sguardo ritroviamo la stessa irrequieta malinconia degli occhi dei bambini ritratti.