Quirinale, Renzi si rifà allo schema del 2006
Nella Direzione Nazionale Pd di venerdì Matteo Renzi sembra aver delineato il metodo con cui si arriverà alla scelta del nome del candidato dem alla Presidenza della Repubblica. Uno schema che sembra rifarsi al precedente (di successo) del 2006 anziché al sistema anarchico di due anni fa.
Il Partito Democratico è la forza politica di maggioranza relativa del paese e del Parlamento. Indica il Presidente del Consiglio, la maggior parte dei ministri e propri esponenti governano la maggioranza delle regioni d’Italia. In un quadro in cui non è ben delineata l’alternativa al Pd, in uno schema bipolare lungi dal realizzarsi, ai democratici spetta l’indicazione di un primo nome per la presidenza.
Renzi ha dichiarato che il 28 gennaio (ma forse sarebbe meglio farlo uscire già martedì 27…) il Pd indicherà un suo nome. Successivamente una delegazione del partito rappresentatrice delle singole istanze interne proporrà questo nome a due fronti: Forza Italia e “tutto” il Pd (nel senso la minoranza interna”). In questo senso la Direzione Nazionale del Pd sarà convocata ad oltranza in quella settimana per fare in modo che ci sia la massima condivisione possibile su quel nome.
Se tutti i poli sentiti mostreranno un interesse nei confronti del nome proposto dal Pd, sin dalla prima votazione (giovedì 29 alle ore 15) sarà possibile ottenere i 673 voti necessari nei primi tre scrutini. Altrimenti il Pd tenterà di eleggere da solo e dal quarto scrutinio il proprio candidato. Sperando ovviamente nel frattempo in un ripensamento da parte delle opposizioni a cui nessuno vieta di aggiungere i propri voti, arrivando ad alte soglie, anche alla quarta votazione dove tecnicamente bastano 505 voti per fare un Presidente.
Uno schema appunto analogo a quello del 2006: il nome del centrosinistra alla presidenza della Repubblica era Massimo D’Alema. Secondo i principi dell’equilibrio interno di coalizione era ai Ds che spettava il Colle più alto, essendo stati eletti alla Presidenza di Camera e Senato rispettivamente un rifondarolo (Bertinotti) e un Margherita (Marini). In un incontro di domenica sera a Palazzo Chigi (il centrosinistra aveva la maggioranza in Parlamento, ma era ancora in carica il governo Berlusconi) tra centrosinistra e centrodestra gli emissari berlusconiani dichiararono irricevibile la candidatura dalemiana proponendo in cambio una rosa di esponenti politici non di centrodestra (almeno secondo le intenzioni del promotori) che la Casa della Libertà sarebbe stata disposta a votare. Nell’ordine Amato, Marini, Dini e Monti.
Nessuno dei quattro garantiva quel principio di equilibrio di cui sopra, e ciò portò Fassino a proporre alla destra un punto di mediazione in grado di non snaturare la vocazione diessina di avere un Capo dello Stato della propria filiera: noi rinunciamo a D’Alema, proponiamo però il più “istituzionale” Napolitano. Se volete lo votate, altrimenti lo eleggiamo da soli alla quarta votazione. Il centrodestra rimase sulle posizioni di partenza e se ne trassero le conseguenze politiche. Nei primi tre scrutini il centrosinistra votò scheda bianca per poi eleggere in solitaria Napolitano alla quarta votazione. Solo Follini e Tabacci dell’Udc si smarcarono dal centrodestra per sostenere il primo inquilino del Colle ex comunista (del resto Follini nel voto segreto aveva già espresso il proprio sostegno a Marini Presidente del Senato: riposizionamenti).
Pierluigi Bersani nel 2013 invece fece l’esatto opposto. In una frangente in cui tra l’altro il sistema politica da un bipolarismo perfetto come quello del 2006 (se escludiamo l’eroico Terzo Polo del prode Enzo Scotti) ad un sistema nella migliore delle ipotesi tripolare. Coerente con lo spirito secondo cui il Presidente deve essere possibilmente condiviso di fatto arrivò a farsi imporre dal centrodestra il nome di Marini tra quelli che avevano chance di ottenere alte maggioranze parlamentari.
Marini scelto dal centrodestra proprio in base alle grandi divisioni che la sua candidatura avrebbe portato in seno al centrosinistra (basti pensare agli attacchi di Renzi all’ex segretario Ppi di qualche settimana prima o alle dichiarazione di Maurizio Gasparri nella fase di scrutinio della prima votazione in cui, pur elogiando la candidatura di Marini, derideva il Pd incapace di dar vita ad una linea netta in un contesto di congresso permanente).
Della morte di quella candidatura e del successivo affossamento di Prodi si è scritto fin troppo. E’ comunque interessante notare come Renzi voglia superare gli errori del passato traendo dal percorso più virtuoso, ed animato dalla sagacia di Piero Fassino, a scapito di quello del tutto fallimentare della segreteria Bersani. Tra il dire (e il progettare) c’è di mezzo il mare (e soprattutto il voto segreto). Ma anche questa dinamica iper-parlamentarista, non testimonia forse che il giovane Renzi sia meno di rottura di quel che si dice in giro?