Steven Bradbury: l’ultimo uomo in piedi
Steven Bradbury in Italia è famoso principalmente per un motivo solo: la Gialappa’s Band. Il popolarissimo trio comico sulla cresta dell’onda tra gli anni novanta e la prima decade del nuovo millennio infatti, celebra questo atleta con uno dei suoi irriverenti commenti. L’occasione è anche piuttosto importante, visto che si tratta delle olimpiadi invernali del 2002 a Salt Lake City, con la gara di short track individuale sui 1000 metri. Il filmato scorre veloce, le voci dei tre canzonano più o meno bellamente il biondo platinato e -diciamolo- non particolarmente veloce atleta australiano, che infatti è ultimo nella sua batteria. Sì, avete forse già colto la prima anomalia della nostra storia, Bradbury è australiano. Ora non per fare del qualunquismo spicciolo, ma i pattini sul ghiaccio non sono esattamente la prima cosa che a me verrebbe in mente pensando al grande paese oceanico. Più facile pensare ad una tavola da surf, diciamo. Ed in effetti è con quella che fin da piccolo Steven inizia a darsi da fare. Ma non solo. Il papà è stato in passato campione nazionale di pattinaggio, e così a otto anni alla tavola da surf ecco abbinate anche le lame sotto i piedi per sprintare sul ghiaccio. Per la cronaca siamo a Camden, sobborgo di Sidney, ed è il 14 ottobre 1973 quando vede la luce per la prima volta. Sulla pista dove tornano le immagini Bradbury ha già quasi trent’anni e una lunga carriera alle spalle. È ultimo nella batteria in cui due su quattro si qualificano per la semifinale. Davanti a lui Apolo Ohno, idolo di casa e favoritissimo per l’oro, e Marc Gagnon, canadese di grande esperienza, tagliano il traguardo per primi. Bradbury è terzo per la caduta di un giapponese poco prima, e viene eliminato. Poco male. Quello che le immagini non ci raccontano è che questo non è il primo grande evento per lui, e una sconfitta non cancella quanto fatto di buono fino a quel punto. Quando a soli sedici anni vinci la staffetta con la tua squadra ai mondiali, che casualmente si giocano proprio ad un tiro di schioppo da dove sei nato e cresciuto (Sidney 1991, Staffetta 5000m), qualcosa da raccontare ai nipotini lo avresti comunque. A questo, apogeo indiscusso della sua carriera, si aggiungono poi un argento mondiale a Guildorf nel 1994 e un bronzo a Pechino -sempre mondiale- nel 1993, oltre al primo titolo olimpico per la nazionale australiana conquistato a Lillehammer ancora nel ’94. Una sconfitta indolore insomma quest’ultima, se non fosse che Gagnon viene squalificato poco dopo dai giudici per aver contribuito alla caduta del giapponese. Steve diventa secondo e passa alle semifinali.
Le immagini saltano direttamente alla partenza. C’è tra gli altri anche il sudcoreano Kim Dong-Sung, campione del mondo in carica, più un cinese, un canadese e un giapponese, tanto che se non fosse per la posta in palio sembrerebbe una barzelletta. Il video prosegue, il coreano incredibilmente cade, il cinese e il canadese si scontrano, il giapponese viene squalificato e l’australiano -ultimo per tutta la corsa- passa in finale come primo. Adesso sì che sembra davvero una barzelletta. Bradbury è palesemente più lento degli altri, forse anche meno aggraziato, eppure per uno che ha corso sempre ad alti livelli come lui, a soli 29 anni è strano. Un motivo però c’è. Sempre in quel famoso 1994, quello dell’argento e del bronzo, Bradbury sta correndo per qualificarsi ai prossimi mondiali di Montreal nei 1500m. È in testa ma ad un certo punto cade, e il destino gli gioca uno scherzo tremendo. L’italiano Mirko Vuillermin non riesce ad evitarlo e con un pattino gli recide l’arteria femorale. È, letteralmente, un bagno di sangue. Bradbury ne perde quasi quattro litri prima che, con undici punti di sutura, si riesca ad arrestare l’emorragia salvandolo per miracolo. Da lì in avanti non ci saranno più trionfi e medaglie ad aspettarlo. Ci sarà invece, nel 2000, un altro incidente. Durante un allenamento ancora una caduta, che questa volta gli costa la frattura di due vertebre cervicali e un altro lungo, tremendo periodo di recupero. Per questo quella nello Utah sarà la sua ultima apparizione. La finale è una fotocopia delle due gare precedenti. Steve resta indietro da subito, ha diversi metri di distacco mentre gli altri quattro davanti lottano serrati per una medaglia. Il video salta diretto all’ultima curva, quando a una ventina di metri dall’arrivo accade l’incredibile. Cadono, in sequenza, tutti e quattro. Steve li guarda, e senza nemmeno dover sprintare sull’ultimo metro taglia il traguardo per primo. Anzi, due cose le fa prima di vincere. Alza le braccia al cielo, e sorride. Non ci crede forse nemmeno lui. Dopo la vittoria si ritira, come detto, ma la sua vita gli riserva altre discrete sorprese e onori. Quella di finire per esempio su un francobollo celebrativo, per esempio. O quella di essere insignito con la medaglia dell’ordine dell’Australia, che è un po’ l’equivalente di essere nominati “sir” dalla regina in Inghilterra.
Bradbury poi è uno che non si è seduto sugli allori, ma ha monetizzato al massimo la sua esperienza e il successo dell’olimpiade, diventando un personaggio pubblico molto famoso, tenendo corsi da motivatore, facendo il telecronista e passando anche per il mondo dei motori in cui fece anche, nel 2007, un paio di buoni piazzamenti. Ha scritto anche un libro, che ovviamente si intitola “the last man standing” (l’ultimo uomo in piedi). Qualcuno in Australia, dopo la sua impresa, pensò anche di coniare il termine “doing a Bradbury”, indicando così qualcuno in grado di ottenere un successo totalmente insperato ma altrettanto clamoroso. Chi però probabilmente ha centrato davvero il punto è Bradbury stesso, quando dopo il suo successo disse “Non ho vinto dopo un minuto e mezzo di gara, ma dopo quasi un decennio di calvario”. Il lieto fine di una storia travagliata, il successo di chi non ha comunque mollato fino alla fine anche di fronte a tante difficoltà. E poco male se per vincere ha dovuto “fare un Bradbury” e finire nelle grinfie di quelli di Mai Dire Gol.