Nel PD la tensione continua a salire. A una settimana esatta dall’inizio delle votazioni per il Quirinale (si parte giovedì 29) Stefano Fassina chiama in causa Matteo Renzi sulla questione dei 101 franchi tiratori che impallinarono Romano Prodi nel 2013. “A differenza di quelli che oggi chiedono disciplina e due anni fa hanno capeggiato i 101, noi siamo persone serie. Nessuno deve temere da noi i franchi tiratori”, ha risposto il dissidente dem a Montecitorio. E a chi gli chiede se Matteo Renzi ha capeggiato i 101, Fassina risponde: “Non è un segreto”.
Parole di fuoco, a cui ha prontamente replicato il vicesegretario Lorenzo Guerini, bollando le parole dell’ex responsabile economico del partito come “una sciocchezza incredibile”. Chi ha ragione? Per provare a districarsi nel labirintico caos che avvenne nella primavera di due anni fa, occorre fare un passo indietro. Nell’aprile 2013 la situazione politica era radicalmente diversa: il paese era senza governo (vista la “non vittoria” di Bersani di febbraio) e senza maggioranza parlamentare.
Il leader PD, già pesantemente ammaccato dalla rimonta della destra, si giocava le ultime cartucce proprio sull’affaire Quirinale e un’elezione di Prodi, sulla carta, avrebbe potuto scompaginare il banco, scongiurando la nascita di un governo di larghe intese. Com’è noto, però, al momento decisivo, con il Movimento 5 Stelle schierato per Rodotà, al Prof mancarono più di 100 voti di “suoi” parlamentari, di cui nessuno sa e saprà mai l’identità. Ma che c’entra Renzi che, all’epoca dei fatti, non era nemmeno in Parlamento? È plausibile che l’attuale premier abbia tramato nell’ombra per far cadere il tentativo di Bersani? Fassina dice di sì, Guerini di no. Come spesso accade, la verità sta nel mezzo.
È fuor di dubbio che il fallimento, con conseguenti dimissioni, di Bersani abbia giovato e non poco ai piani di Renzi: rimasto il PD privo di un segretario, l’allora sindaco di Firenze ha avuto tutto il tempo di preparare e stravincere il congresso, mentre l’immobile governo Letta veniva rosolato dai continui contrasti nella maggioranza PD-PDL. Eppure, poiché la matematica non è un’opinione, è opportuno ragionare sui numeri in Parlamento e sul fatto che, all’epoca, i parlamentari renziani si contavano (quasi) sulle dita di due mani. Massimo una cinquantina, concessione fatta a malincuore dalla Ditta.
E allora è ovvio che, anche volendo prendere per buona la versione di Fassina, l’affossamento del Prof. non può essere ricondotto solo a Renzi. Anzi. Non bisogna scordare che il primo a trarre beneficio dalle larghe intese fu Enrico Letta, nominato premier con l’avallo di Berlusconi e forte di una numerosa pattuglia di parlamentari a lui fedelissimi (su tutti Francesco Boccia). Non parliamo poi delle truppe dalemiane: dove sta scritto che il manipolo leale all’ex premier non abbia voluto far fuori per la seconda volta il fondatore dell’Ulivo, così da garantire la “continuità comunista” sul Colle?
Da ultimo, non possono essere sottovalutati i tanti ex democristiani, in quanto tali campioni delle trame sottobanco. La corrente dei Popolari, per esempio, che aveva fiutato la possibilità di mettere il proprio pezzo da novanta al Quirinale (Franco Marini): chance tramontata a seguito delle parole proprio di Renzi (“Votare Marini vuol dire fare un dispetto al paese”).