Still Alice, quale parte di noi sopravvive alla malattia?
I ricordi sono una seconda pelle. La creta con cui nel corso degli anni plasmiamo la nostra identità, e la bussola che ci orienta. Per questo quanto la malattia colpisce la memoria, torniamo a essere vulnerabili e fragili, come serpenti durante la muta. E la metamorfosi può essere ancora più spiazzante e crudele, se arriva dopo aver dedicato la propria vita a coltivare la mente, per poi coglierne i frutti, come la protagonista di Still Alice, film di Richard Glatzer e Wash Wastemoreland giunto in Italia in questi giorni.
Alice Howland (Julianne Moore) è una donna che definiremmo realizzata. La sua vita è piena e intensa, sia dal punto di vista professionale, che nel privato. Docente di linguistica alla Columbia University di New York, ha un marito che la ama teneramente (Alec Baldwin) e con cui condivide anche la passione per la ricerca, e tre figli per cui è un punto di riferimento. Un giorno però, succede qualcosa che porta via, poco a poco, i mille colori e sfumature del suo quotidiano. La memoria di Alice comincia a sfaldarsi, la sua proprietà di linguaggio, il carisma e la competenza che caratterizzavano le sue lezioni vengono meno. Il caso può essere davvero amaramente buffo, quando, come in questo caso, ad ammalarsi di Alzheimer precoce è qualcuno per cui la parola è il primo e più importante strumento di conoscenza della realtà.
Nonostante l’affetto del marito e dei figli, Alice è terrorizzata dal pensiero di perdere sé stessa. L’angoscia più spaventosa è quella di veder scivolare via i ricordi più preziosi e importanti che la tengono ancorata alla realtà, e a cui si aggrappa con le unghia e con i denti. E’ un processo che purtroppo non si può arrestare, ma che può essere affrontato con dignità e combattività, riuscendo ad assaporare, fino all’ultimo, frammenti di autenticità.
Still Alice, film tratto dall’omonimo romanzo
Still Alice è tratto dall’omonimo romanzo della neuro scienziata Lisa Genova, che, dopo l’iniziale autopubblicazione, ha venduto centinaia di migliaia di copie. La storia è, indiscutibilmente, cucita addosso a Julianne Moore, che, con la sua interpretazione costruita “in sottrazione” restituisce il cuore del dramma del personaggio. I gesti di Alice sono misurati e composti, ma non per questo meno intrisi del dolore che la malattia porta con sé, quando, non per propria volontà, bisogna rinunciare a ciò che si era, accettando un nuovo sé, sempre più ovattato e anestetizzato. Il cambiamento a cui la donna è costretta ad “assistere” è così repentino e irreversibile, che sente il bisogno di fissare una traccia necessaria forse in un futuro prossimo, e per farlo si affida alla tecnologia. Lo sdoppiamento reale e metaforico di Alice ha un che di pudico e toccante, e come tutto quello che scuote in profondità, non fa rumore.
Purtroppo però c’è qualcosa che stona, rispetto all’interpretazione di Julianne Moore, ed è la caratterizzazione tanto netta quanto scontata dei tre figli. Così, come in ogni famiglia cinematografica che si rispetti, c’è il ribelle, quello che ha obbedito a tutti i desideri dei genitori, e infine quello che preferisce sempre non esporsi. Tuttavia, nel complesso l’intento dei registi di Still Alice può dirsi riuscito: difficile che chi ha visto il film si dimentichi di Alice, e anzi la speranza è che se ne ricordi anche chi, tra qualche settimana, deciderà l’assegnazione degli Oscar.