Il Quantitative Easing di Draghi è una strada lunga e lastricata di “vedremo”
Settimana difficile per l’Europa: la Germania incassa due schiaffoni in quattro giorni, uno da Francoforte e uno da Atene, e il rumore che ne viene fuori rischia di radicalizzare la crisi europea. L’ultimo schiaffone in ordine di tempo è la vittoria della sinistra radicale anti-Troika e anti-austerità di SYRIZA, guidata da Alexis Tsipras, e che ha deciso peraltro di allearsi con i populisti di destra altrettanto anti-Troika (e perdipiù euroscettici). Per valutare leconseguenze del voto greco, però, sarà necessario attendere le prime mosse del nuovo governo. L’unica certezza è l’aumento dell’incertezza, che come noto non aiuta gli agenti economici a prendere decisioni “ottimiste”.
L’altro schiaffone è ovviamente il Quantitative Easing di Mario Draghi le cui conseguenze si possono analizzare più facilmente. In sintesi, la BCE aumenterà di 50 miliardi di euro al mese i propri acquisti, portandoli a 60 miliardi al mese. Verranno acquistati titoli di Stato sul mercato secondario, ma solo il 20% sarà condiviso in sede europea, il resto sarà a carico delle banche centrali nazionali e quindi dei governi.
Le conseguenze sono principalmente quattro: calo dei rendimenti e quindi maggiore spazio per finanziarsi a deficit; aumento dei corsi azionari; ripresa del mercato del credito; svalutazione dell’euro. Ma si tratta soprattutto di speranze. L’ultima conseguenza è già abbondantemente realtà da mesi, e l’euro potrebbe già essere vicino ai minimi intorno ai quali fluttuerà. Ciò dovrebbe in teoria aiutare le esportazioni, ma il settore già si era ripreso bene dalla crisi anche con l’euro a 1,40 (e probabilmente era uno dei motivi della forza dell’euro), per cui i benefici su questo versante saranno limitati. Peraltro l’economia europea è un’economia di consumi interni, con le esportazioni extra-euro che ne valgono circa un quinto.
Anche la ripresa del mercato del credito non è conseguenza meccanica del QE: la liquidità sul mercato ci sarebbe anche, ma mancano le condizioni che dovrebbero spingere le banche a mettersi in tasca crediti complicati come mutui e prestiti alle aziende. La situazione economica europea è tutt’altro che buona, per cui gli istituti di credito rischiano di mettersi in tasca altri titoli tossici, in aggiunta a quelli che già hanno in pancia.
Non solo, ma la BCE, se da un lato regala soldi, dall’altro li richiede indietro: le banche devono mettere da parte una percentuale dei soldi che prestano, in base al rischio. Si tratta di un cuscinetto che serve ad attutire le perdite: la BCE sta chiedendo alle banche di aumentare questo cuscinetto, il che significa che le banche, per prudenza, preferiscono non riempirsi di altre attività rischiose, perché rischiano di non avere i soldi per rispettare gli ordini della BCE ed essere quindi costrette a chiudere.
L’aumento dei corsi azionari ha due effetti. Il primo è l’effetto ricchezza: chi ha in portafogli azioni diventa (o meglio, si sente) più ricco perché i prezzi salgono, per cui consuma più volentieri, le aziende guadagnano, assumono e tutti sono contenti. Qual è il problema? Il solito: l’incertezza. I consumatori ancora non vedono una ripresa solida (anzi), per cui, come diceva, sbagliando, il premier Renzi, decidono di “arricchirsi”, ovvero mettere da parte i soldi in attesa che arrivi l’inverno. L’effetto ricchezza, quindi, potrebbe non essere molto potente.
L’altro effetto è permettere alle imprese di ottenere finanziamenti chiedendoli direttamente al mercato, ovvero vendendo azioni in borsa. Negli Stati Uniti questo ha molto aiutato, ma c’è una lievissima differenza con l’Europa: il Vecchio Continente è un sistema bancocentrico, i mercati finanziari sono poco sviluppati (quello italiano potrebbe anche definirsi sottosviluppato) per cui anche questa strada non è molto promettente per riattivare un canale del credito che sembra gravemente danneggiato, e quindi far ripartire l’economia.
Ultima conseguenza, il calo dei rendimenti: la BCE comprerà titoli soprattutto a media e lunga scadenza, perché altrimenti dovrebbe accettare rendimenti negativi, che oggi cominciano a essere realtà anche sui titoli a dieci anni.
Se calano i rendimenti, gli Stati possono vendere sul mercato titoli del debito pubblico promettendo interessi più bassi, e quindi pesando meno sulle finanze pubbliche. Gli Stati possono prendere in prestito il denaro di cui hanno bisogno per investire in infrastrutture e altre cose che aiutano a stimolare la domanda e quindi le aziende ad assumere e le famiglie a consumare.
Ma anche qui c’è un piccolissimo problema: gli Stati europei o non possono farlo o non vogliono farlo. Nel primo gruppo ci sono i Paesi della periferia, cui è stato imposto di tagliare il debito pubblico, non aumentarlo, anche a costo di fare macelleria sociale (che in alcuni casi, come quello greco, era semplicemente inevitabile); nel secondo gruppo ci sono i Paesi che potrebbero indebitarsi ma che, per motivi non chiari, stanno inseguendo non solo il pareggio, ma addirittura un surplus di bilancio. Pertanto la mossa di Draghi consentirà alla maggior parte dei Paesi di pagare interessi minori su un debito pubblico che continua a salire per via di una crescita anemica, quando non recessione conclamata.
Certo, se ne potrebbe uscire mettendo in comune i piani d’investimento per le infrastrutture e la ricerca e lo sviluppo e fare debito insieme, ma sembra più facile che il ministro delle Finanze tedesco (che ha perso l’uso delle gambe dopo un attentato) vinca la maratona di Berlino. Insomma, il quantitative easing resta una strada lastricata di “vedremo”: l’unica certezza è che non basterà da solo.