L’Italia ha “bloccato” le commesse all’Arabia Saudita, impegnata nel conflitto in Yemen. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, il 29 gennaio ha dichiarato via Facebook:
“Vi annuncio che il governo ha revocato le autorizzazioni per l’esportazione di missili e bombe d’aereo verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti“
In molti, tra partiti, associazioni per la pace e varie realtà affini hanno esultato alla notizia. Ma andando a leggere le carte appare chiaro che, in realtà, le cose non siano così definitive come le si vuole far passare.
Prima di procedere all’analisi del coinvolgimento italiano, facciamo un passo indietro.
La guerra civile in Yemen
Descrivere minuziosamente la guerra in corso in Yemen richiederebbe un articolo a sé e forse anche di più. Questa di seguito è una breve ma necessaria sintesi per contestualizzare le vicende raccontate in questo pezzo.
Introduciamo i protagonisti di questa storia:
- il governo yemenita del presidente Abdrabbuh Mansur Hadi
- il Movimento Houthi di Abdul-Malik al-Houthi
- Al-Qaeda e i suoi spinoff
- l’ISIS della penisola yemenita
- la coalizione guidata dall’Arabia Saudita
Tutto inizia il 16 settembre 2014 con la Battaglia di Sana’a (la capitale del Paese), quando le milizie Houthi si scontrano per la prima volta con le truppe governative. Il 21 settembre i ribelli occupano la capitale e il mondo arabo viene shockato dalla rapidità di tale conquista. Il Primo ministro Basindawa si dimette in quello che sembra essere il primo passo verso una pacificazione del Paese ma invece risulta in un nulla di fatto. Gli Houthi si rifiutano di restituire i territori conquistati e le loro armi e dichiarano guerra totale ad Hadi.
L’inizio dell’intervento saudita
Siamo a marzo 2015, la guerra tra Houthi e forze governative non accenna a fermarsi e nel frattempo il presidente Hadi si è rifugiato in Arabia Saudita. Nel complesso scacchiere geopolitico medio-orientale che vede Iran e sauditi contrapposti, Hadi è un fedele alleato della monarchia saudita.
I sauditi cedono alle richieste di aiuto di Hadi e il 26 marzo 2015, inizia l’Operazione Decisive Storm (Tempesta decisiva). Questa operazione si dimostra così decisiva che dopo tre settimane è già finita, per essere sostituita dall’Operazione Restoring Hope (Ridare/ripristinare la speranza). A febbraio 2021, questa offensiva è in corso da cinque anni e nove mesi.
In realtà, la prima operazione viene dichiarata conclusa in quanto, secondo il ministro della Difesa saudita, era stata eliminata con successo la minaccia rappresentata dalle armi pesanti degli Houthi. Ma anche questa teoria sembra poco veritiera considerando che la guerra è ancora in corso.
I risultati della coalizione
L’intervento della coalizione inizia con cento aerei da guerra e 150000 soldati sauditi, affiancati da elementi dall’aviazione di tutti i Paesi alleati. Inoltre, l’Arabia Saudita aiutata da quattro navi da guerra egiziane, impone un blocco navale contro lo Yemen.
Sia chiaro, in una guerra non ci sono stinchi di santo da nessun parte e qua ci concentriamo sui sauditi solo per il tema dell’articolo. Il pezzo non vuole sminuire, sottostimare o nascondere i crimini dell’altra parte.
Nel complesso, questa guerra ha provocato circa 230000 vittime e oltre venti milioni di persone con urgente bisogno di assistenza umanitaria. Venti su un totale
Il business delle armi
Quello degli armamenti è, per ovvi motivi, un settore industriale particolare. Questo tipo di business coinvolge sia la politica estera che la Difesa italiana ed è per questo un’azienda può esportare i suoi prodotti solo previa autorizzazione dello Stato. Queste vengono concesse oltre che in base ai rapporti che l’Italia ha con il Paese compratore, anche nel rispetto di eventuali embarghi imposti dall’U.E. o dall’O.N.U.. In Italia la principale esportatrice di armi è la Leonardo (già Finmeccanica), il cui azionista di maggioranza è il Ministero dell’Economia con il 30%.
Se vendere le armi non è anomalo, del resto i Paesi hanno bisogno di munizioni per gli eserciti e via dicendo, c’è un’altra questione che si apre. Se l’Italia ripudia la guerra, come mai rifornisce l’Arabia Saudita che è coinvolta in una guerra? Presto detto.
Le commesse dell’Italia all’Arabia Saudita
Secondo la legge 185 del 90 (poi integrata nel 2012 per facilitare le vendite intra-Unione), è vietata la vendita di armi a Paesi in guerra ed è inoltre vietato il transito di questi armamenti nel territorio italiano. Eppure nel Sulcis-Iglesiente, in Sardegna, c’è una fabbrica che produce parti di ordigni che sono stati ritrovati tra le macerie delle città yemenite.
Questa società è la RWM Italia, sita a Domusnovas e controllata al 100% dalla tedesca Rheinmetall AG. Ed è proprio questa fabbrica al centro delle polemiche. Nel dicembre 2018, il governo tedesco ha imposto il blocco delle esportazioni verso l’Arabia Saudita, dopo l’omicidio Khashoggi ma la RWM ha continuato a produrre ed esportare attraverso la sua controllata. Inoltre, le conseguenze del blocco non si riflettono neanche sulla sudafricana Denel Munition, di cui la Rheinmetall detiene il 51%.
Come mai la legge 185 è stata bypassata? La questione ha la sua risposta nella “semantica” politica della legge. L’Italia non può esportare armamenti verso Paesi coinvolti in guerre ma
- l’Arabia Saudita non ha dichiarato guerra a nessuno
- non sta tecnicamente combattendo contro un Paese ma contro una milizia, gli Houthi appunto
Il problema della RWM in Sardegna
La questione RWM è molto sentita in Sardegna, specie perché la fabbrica si trova nella zona più povera della regione. Varie associazioni pacifiste stanno portando avanti battaglie per chiedere una riconversione o chiusura della fabbrica e in generale per offrire un’alternativa più etica ai lavoratori. Questo ovviamente ha portato a scontri sia tra le associazioni e la fabbrica che a livello politico tra chi è a favore della presenza della stessa e chi ne denuncia la partecipazione nelle stragi in Yemen.
In un territorio che offre poche alternative, la fabbrica riesce a procurarsi facilmente manodopera. In totale nello stabilimento di Domusnovas risultano impiegati circa 230 lavoratori.
E proprio il tema del lavoro è uno dei motivi di scontro: meglio chiudere la fabbrica e provare a costruire nuove imprese o mantenere un lavoro che può non essere visto come etico ma (al momento) sicuro?
E in questo dilemma si inseriscono i blocchi alle esportazioni implementati dai governi Conte.
Primo blocco alle commesse all’Arabia Saudita
Siamo nel luglio 2019 è il vicepresidente del Consiglio e pluri-ministro Luigi Di Maio, dichiara:
«Vi ricordate le foto di bombe che dalla Sardegna partivano per esser usate nel conflitto in Yemen? Ci abbiamo lavorato un anno e oggi in Consiglio dei Ministri si è concluso l’iter che d’ora in poi dirà all’Autorità nazionale che si occupa di export di armamenti di bloccare qualsiasi contratto in essere o nuovo contratto che vede l’esportazione di bombe ad aria o missili o strutture di armamento che possano andare verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi ed essere utilizzate per il conflitto in Yemen”
Nonostante le parole scelte da Di Maio, il blocco aveva già in partenza un orizzonte temporale di diciotto mesi.
A questa azione del governo fa seguito la protesta dei vertici della fabbrica che lamenta la mancata correttezza del Governo, visti i contratti in vigore. Come ulteriore carta, la fabbrica pone il problema dei lavoratori a cui non sarà possibile rinnovare il contratto e quelli che dovranno essere messi in Cassa Integrazione. In totale i lavoratori coinvolti saranno circa duecento.
Il blocco definitivo (ma non troppo)
Siamo a inizio 2021: Luigi Di Maio è ancora ministro (ma non più vicepresidente), Giuseppe Conte è ancora presidente del Consiglio e abbiamo un altro blocco delle commesse all’Arabia Saudita. Anche questo annunciato come definitivo ma a ben vedere più congelato che altro.
Lo scenario politico è particolarmente intrecciato perché Matteo Renzi ha appena staccato la spina al Governo Conte 2 ed è nei giornali anche per aver avuto un colloquio a pagamento con il principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman Al Sa’ud.
Anche se il blocco potrebbe sembrare uno schiaffo indiretto all’ex alleato, le procedure nell’apposita Commissione alla Camera, fanno capire che non è certo un gesto d’impulso. Nonostante questo, divampano le polemiche tra Italia Viva e Movimento 5 Stelle.
Ma torniamo a noi.
Il testo della risoluzione della Commissione
La risoluzione della Commissione Affari Esteri, a prima firma Yana Chiara Ehm (M5S) e co-firmataria Lia Quartapelle (PD) è stata approvata a fine 2020 e ufficializzata dall’UAMA (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento) a inizio 2021.
Il testo approvato (non riportato interamente per motivi di sintesi), impegna il Governo
- ad adottare gli atti necessari per revocare le licenze in essere, relative alle esportazioni verso i Paesi dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti di bombe d’aereo e missili, che possono essere utilizzate per colpire la popolazione civile, e della loro componentistica
- a mantenere la sospensione della concessione di nuove licenze per i medesimi materiali e Paesi e a valutare la possibilità di estendere tale sospensione anche ad altre tipologie di armamenti, sino a quando non vi saranno sviluppi concreti nel processo di pace.
Qui appaiono le prime discrepanze tra la risoluzione e i toni vittoriosi espressi da vari partiti, associazioni e altre realtà.
Un testo ambiguo
La revoca delle licenze in essere di per sé non significa che non possano esserne autorizzate altre in futuro. La risoluzione non obbliga il Governo in modo perpetuo, specie se si considera che non si sa quale sarà il prossimo Governo e quali politiche adotterà.
Secondo, gli armamenti a cui si fa riferimento sono quelli che possono essere utilizzati contro la popolazione civile. Posto che qualunque arma potrebbe essere utilizzata contro un civile, questo pare escludere ad esempio, i missili anticarro. Questi missili hanno la funzione di distruggere carri corazzati o altri tipi di veicoli simili, come ad esempio i Puma impiegati dal nostro esercito.
Ma la parte che lascia più dubbi sull’effettiva possibilità di definire il blocco definitivo è quella che chiede di mantenere la sospensione sino a quando non vi saranno sviluppi concreti nel processo di pace.
Pur non mettendo in dubbio la buona volontà di intenti della risoluzione, il concetto di “sviluppi concreti” appare quantomeno ambiguo. Come possono essere valutati tali sviluppi in maniera oggettiva? Alla luce di questo, appare anche chiaro che non si voglia chiudere definitivamente la porta al commercio all’Arabia Saudita.
Conclusioni
Per quanto il blocco della vendita di armi all’Arabia Saudita appaia come il gesto più ovvio per un Paese che promuove la pace, il blocco pare essere tutto meno che definitivo.
L’unico fatto certo e definitivo è che mentre in Europa discutiamo di bloccare le esportazioni di armi e per quanto, sulla popolazione yemenita continueranno a piovere bombe. Magari non vendute da noi ma di sicuro letali.