Da una parte nuove norme che identificano l’utilizzo distrumenti informatici o telematici come circostanzeaggravanti dell’istigazione o dell’apologia di reato e dall’altra nuove misure eccezionali volte a consentire a forze dell’ordine e magistratura di inibire, in via d’urgenza, la circolazione di taluni contenuti connessi o strumentali a reati di stampo terroristico interno ed internazionale.
L’argomento è straordinariamente spinoso ed ogni semplificazione rischia di far torto o alle reali esigenze di rinforzare le misure già vigenti nel quadro della lotta al terrorismo o a quelle – egualmente importanti – di garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali, prima tra tutte quella di manifestazione del pensiero.
Guai a non riconoscere che il governo, nel dettare le nuove regole, si è mosso lungo un crinale davvero scivoloso. La gravità ed urgenza della minaccia terroristica – specie sull’onda dei recenti fatti di Parigi – avrebbe, infatti, potuto produrre risultati decisamente più liberticidi e censori di quanto non sia accaduto con la “giustificazione” – anche se solo mediatica e politica – di aver agito in nome della sicurezza nazionale.
E guai a non riconoscere che – almeno per quanto riguarda le misure dettate in materia di Internet – si registra, forse per la prima volta, un’attenzione verso il bilanciamento tra contrapposti interessi: la lotta al terrorismo e il rispetto delle libertà e garanzie fondamentali dei cittadini.
In un Paese nel quale un’Autorità amministrativa indipendente, a tutela del diritto d’autore, può ordinare in 48 ore l’oscuramento di un intero sito, la circostanza che il governo, davanti alla minaccia terroristica, abbia, comunque, resistito alla tentazione di adottare uno schema analogo autorizzando, direttamente – come pure accaduto in Francia – il Ministero dell’interno ad oscurare interi siti internet, è, certamente, un fatto da salutare con favore. Stando, infatti, alle prime indiscrezioni sul testo del decreto, l’oscuramento di interi siti internet o la rimozione di taluni contenuti, da noi, potranno essere disposti solo all’esito di undialogo tra forze dell’ordine e magistratura inquirente e di un ordine del pubblico ministero.
Le stesse indiscrezioni, tuttavia, inducono a ritenere che sia, purtroppo elevato il rischio che nell’attuazione del decreto, la libertà di circolazione delle informazioni e dei contenuti finisca con il rimanere, talvolta, triturata nella macchina dell’antiterrorismo in ragione di alcune approssimazioni definitorie e tecnico-informatiche che sembrerebbero non mancare nel testo del decreto. C’è, innanzitutto, il tema della c.d. black list nella quale il Ministero dell’Interno annoterà i “siti utilizzati per le attività e le condotte di cui agli articoli 270-bis e 270-sexies del codice penale, nel quale confluiscono le segnalazioni” ovvero quelle di promozione, costituzione e organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo e quelle aventi in sé natura terroristica.
Stabilire quando un intero sito internet è “utilizzato” per compiere un’attività terroristica di per sé non sempre facile da identificare è operazione straordinariamente complessa e delicata con l’ovvia conseguenza che è, purtroppo, elevato il rischio che in black list finiscano siti i cui contenuti sono in tutto o in parte assolutamente leciti. Né il decreto pare subordinare l’eventuale oscuramento dell’intero sito alla circostanza che quest’ultimo siainequivocabilmente utilizzato integralmente o, almeno, in misura prevalente per la commissione di azioni di matrice terroristica.
Egualmente dubbi non inferiori sollevano le disposizioni del decreto che autorizzerebbero il pubblico ministero a ordinare ai fornitori di hosting “ovvero ai soggetti che comunque forniscono servizi di immissione e gestione, attraverso i quali il contenuto relativo alle medesime attività è reso accessibile al pubblico, di provvedere alla rimozione dello stesso”. La disposizione, infatti, se così effettivamente formulata, rischia di trasformare gli internet service provider in sceriffi della rete, chiamati a rintracciare sulle proprie macchine, “contenuti” che, magari, negli ordini dei pubblici ministeri, potrebbero essere definiti semplicemente per titolo, per oggetto, per argomento.
Si tratterebbe di un’attività defatigante per i fornitori di servizi online, che non sono attrezzati a svolgere e che soprattutto non devono essere chiamati a svolgere, a pena di esporre, ancora una volta, la libertà di manifestazione del pensiero ad un elevato rischio di censura privata perché, naturalmente, i fornitori di servizio, per paura di cancellare troppo poco, sarebbero portati a cancellare troppo. E questa preoccupazione è amplificata dalla circostanza che il decreto sembra prevedere che qualora i fornitori di hosting non ottemperino al provvedimento entro 48 ore, l’intera loro piattaforma potrebbe essere oscurata.
Impossibile non pensare al rischio che, per effetto di una comunicazione nella quale il contenuto oggetto della rimozione non è identificato in modo sufficientemente preciso o la comunicazione non è puntualmente notificata a chi ha effettivamente il controllo su un determinato contenuto, intere piattaforme di social network, interi siti di user generated content, potrebbero finire con l’essere oscurati in nome di un fine innegabilmente nobile ma con un risultato democraticamente insostenibile.
E’ importante, per non rischiare che il bilanciamento tra i contrapposti interessi, innegabilmente cercato dal governo nei principi ispiratori del decreto, non resti tradito nella sua attuazione, che si chiarisca che l’ordine di rimozione di un contenuto deve, necessariamente, contenere l’url che contraddistingue il contenuto medesimo e, soprattutto, che siano implementatiprotocolli di comunicazione tra fornitori di servizio, magistratura e forze dell’ordine in modo da garantire che la necessaria rapidità dei procedimenti di rimozione dei contenuti non si trasformi in un boomerang censorio, capace di mettere un cerotto sulla bocca a voci lecite per oscurare contenuti illeciti.