Dentro l’attore, la persona. A Bologna gli scatti hollywoodiani di Sid Avery
Una foto in bianco e nero. Ritrae Audrey Hepburn che se ne va spasso in bici per gli studi Paramount. Casual e mascolina, il look ne evidenzia la naturale eleganza. Con lei il cagnolino Famous. Correva il 1957. L’immagine successiva, che risale all’anno dopo, immortala Paul Newman e Joanne Woodward nella loro casa di Beverly Hills. Lei ride di gusto, evidentemente rilassata. Lui fuma e la guarda. Negli occhi quella complicità frutto di condivisione, oltre che di una genuina attrazione.
L’autore degli scatti è Sid Avery, fotografo americano famoso per aver catturato la “zona di confine” tra pubblico e privato delle celebrities americane tra gli anni Cinquanta e Sessanta. A lui la Galleria ONO arte contemporanea di Bologna dedica una mostra intitolata Hollywood Snapshot. Sid Avery Photographs, in corso fino al 1 marzo.
I divi si sa, sono capricciosi e volubili, e negli anni Cinquanta ne avevano abbastanza di foto posate e patinate. George Hurrell e Laszlo Willinger avevano nutrito l’immaginario collettivo con ritratti levigati ed eterei, testimonianza di una perfezione quasi sovrannaturale. Come dei dell’Olimpo, attrici e attori di Hollywood erano considerati intoccabili e irraggiungibili. Immortali.
Sid Avery colse il cambiamento dei tempi, e lo fissò su pellicola. Il fotografo riuscì nella difficile impresa di rappresentare uno dei momenti più intimi della vita di un artista. Quello in cui, nel retroscena, sveste i panni del personaggio e si riappropria della persona. Così, la snapshot divenne il marchio inconfondibile del suo stile.
Sigaretta tra le labbra, sguardo ironico e inafferrabile, la spavalderia che si può permettere chi è giovane e bello. È un James Dean guascone quello che il fotografo ritrae sul set de Il Gigante,nel 1955, poco prima che muoia in un incidente stradale. Un po’ scatto rubato un po’ foto posata, l’opera di Sid Avery incarna l’anima dell’America di Eisenhower. Le famiglie devono immaginare i loro idoli come vicini di casa, persone alla mano e familiari, per sognare e quindi consumare. E il fotografo non se lo fa ripetere due volte.
Tra il 1946 e il 1961 sforna circa 350.000 immagini, pubblicate sulle riviste più popolari dell’epoca, tra cui Look, Life, Saturday Evening Post, Silver Screen e Colliers. Arte e media lavorano a un obiettivo comune: alimentare il sogno americano. La mostra è quindi un’occasione per immergersi in un’epoca che molti di noi non hanno vissuto, lasciandosi affascinare da un divismo impensabile attualmente. A fare la differenza, non solo il carisma di quelli attori, ma soprattutto il loro spessore umano.