(In collaborazione con Mediterranean Affairs)
Dopo la caduta di Gheddafi, nel 2011, la Libia è progressivamente precipitata nel caos e la situazione attuale non sembra mostrare miglioramenti. Il quadro politico è frammentato, segnato dalla crescita delle tensioni interne. Dopo le elezioni del 2014, il paese è diviso in due aree politiche. A est, il governo riconosciuto a livello internazionale del Primo Ministro Abdullah al-Thani, che ha sede nella città di Tobruk e rivendica il sostegno dei partiti politici laici e democratici. A ovest, a Tripoli, un autoproclamatosi “governo di salvezza nazionale”, guidato da Omar al-Hasi, è sostenuto dalle potenti milizie di Misurata e da gruppi d’ispirazione islamica. Ognuno dei due governi è appoggiato da una coalizione di milizie e signori della guerra locali, ma raggiungere un cessate il fuoco è complicato, il controllo che i due governi esercitano sulle milizie è labile.
Questa situazione ha devastato l’economia libica. La produzione di gas e petrolio, l’unica risorsa naturale del paese, è in calo. L’emergenza umanitaria e sanitaria alimenta i flussi migratori e la disoccupazione è elevata. La Libia è uno Stato fallito che ha perso la sua unità statale, e l’ISIS ha approfittato dell’assenza di un potere centrale.
Gli interessi delle forze in campo
I due governi avversari e i terroristi islamici hanno interessi sostanziali: il petrolio e il gas. I proventi della vendita di gas e petrolio rafforzano le coalizioni avversarie e potrebbero alimentare il mercato nero del petrolio gestito dai jihadisti. Il blocco delle attività di estrazione, le raffinerie e i porti petroliferi libici sono armi incontrastate utilizzate dalle fazioni che continuano a farsi la guerra e, come accade in Iraq, i militanti jihadisti stanno utilizzando i ricavi da traffico illegale di petrolio per finanziare il loro stato islamico. I due principali terminal, Ra’s Lanuf e Sidra, sono stati chiusi a causa dei bombardamenti. Presenza storica in Libia, l’Eni è attiva in due siti off-shore e nei giacimenti on-shore di Wafa ed Elephant, insieme alla libica National Oil Corporation, che potrebbe decidere di interrompere la produzione di petrolio greggio, qualora gli incidenti aumentassero. Il gigante italiano degli idrocarburi ha investito ingenti risorse in Libia, firmando accordi per lo sfruttamento di gas e petrolio, fino al 2040. Le riserve sono concentrate principalmente nel bacino di Sirte, a nord della Libia, dove si trova l’impianto di liquefazione di Brega. Da qui, l’Eni GreenStream pipeline collega la Stazione di Compressione di Mellitah al Terminale di Ricevimento a Gela, in Sicilia. Il GreenStream è l’unico canale che alimenta l’Italia, beneficiario assoluto di gas libico. L’Italia è esposta su due fronti: le forniture di petrolio e di gas e la minaccia dell’ISIS, ma questi dovrebbero essere affari dei governi libici, se vogliono risorse per continuare la loro guerra. Questo è il motivo per cui proteggono i terminali dell’Eni, che non ha abbandonato la Libia.
Alleanze fra terroristi
L’instabilità della Libia potrebbe spingere il Califfato ad assorbire organizzazioni terroristiche dell’Africa sub-sahariana e stringere legami con diversi rami africani del jihadismo, come al-Shabaab in Somalia, Boko Haram in Nigeria o i jihadisti del Mali. Il Regno Unito, la Germania e la Spagna sono attente alle dinamiche del terrorismo. Gli Stati Uniti mantengono un profilo basso. La Francia ha chiesto una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e ha approvato la reazione militare egiziana, sostenuta anche dalla Russia, per spingere i terroristi fuori dalla Cirenaica, dove la francese Total concentra i maggiori investimenti. Resta da valutare la posizione degli altri paesi dell’Africa settentrionale. Il Marocco, la Tunisia e l’Algeria hanno interesse a fermare l’avanzata dei jihadisti per motivi geografici e per evitare il contagio, anche se un atto di guerra potrebbe alimentare l’estremismo presente in casa. La Turchia è cauta e ambigua rispetto al Califfato. Gli Emirati Arabi Uniti sono un partner affidabile e una forma di supporto potrebbe giungere anche dall’Iran sciita, preoccupata del successo dei sunniti dell’ISIS.
La strategia dell’Occidente
La storia recente in Iraq e in Afghanistan insegna che gli alleati debbano convergere su una strategia forte e condivisa, che coinvolga anche le forze locali contro la presenza jihadista in Libia. Fermare l’ISIS è una priorità prioritaria, ma è molto più importante avviare il dialogo tra le parti in lotta e riunire le diverse anime politiche della Libia sotto un governo centrale, al fine di proteggere le risorse energetiche, e non commettere lo stesso errore post-Gheddafi, lasciando la Libia in uno stato di anarchia. L’unica strada percorribile sembra essere la convocazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma il vuoto di potere rischia di giocare a favore dei terroristi.
Federica Fanuli
(Mediterranean Affairs – Editorial board)