Gary Payton: Il Guanto
Parlare di peggior finale disputata quando il soggetto è il più grande cestista della storia, può certamente apparire come un grossolano controsenso, visto che A- Jordan le ha vinte tutte e soprattutto B- si è sempre portato a casa il titolo di MVP. Tuttavia, numeri alla mano ma non solo, quella del rientro completo dopo la pausa del baseball (anno di grazia 1996), dei Bulls del record di 72 vittorie in stagione e dei big four con Rodman, Pippen e Kukoc fu quella meno impressionante delle sei. Di tutte le spiegazioni che vi possono venire in mente, quella con maggiore diritto di cittadinanza ha il nome e il cognome di uno dei più grandi difensori della storia. Con il numero 20, da Oakland – California, “Il Guanto”. Gary Payton.
GLI INIZI
Ma chi è questo ragazzo che a 28 anni (Payton nasce il 23 luglio del 1968) si permette di tenere MJ sotto i trenta punti di media (27,3) in finale con un mediocre 41,5% al tiro? Nessuno c’era mai riuscito prima. Nessuno ci riuscirà nemmeno nelle due edizioni seguenti. Per scoprirlo dobbiamo partire come detto da Oakland, in California, vicino alla baia di San Francisco. Un luogo che per attrattiva e bellezza rivaleggia con pochi altri, ma che sa essere anche duro e difficile per crescere un bambino.
Lo sa bene papà Al, ex giocatore con fortune alterne e coach della vicina High School, un duro vero rispettato da tutti nei playground della zona. Payton Sr. non ci va leggero nemmeno col pargolo, anzi. È talmente grande il bisogno di farsi rispettare e di non tirarsi mai indietro che inculca nel figlio, che il giovane Gary si ritrova protagonista già alla scuola superiore di più di una rissa in campo con avversari e pubblico a cui non va a genio il suo atteggiamento. I grandi college, dubbiosi sul suo carattere, lo snobbano, così che Oregon State ha vita facile nel reclutarlo tra le sue fila.
Quattro anni in un crescendo clamoroso (ultima stagione a 25,7 di media con oltre 8 rimbalzi, quasi cinque assist e tre recuperi abbondanti) gli fanno guadagnare la seconda scelta assoluta da parte dei Sonics nel draft del 1990, oltre a varie onorificenze a livello collegiale che trovate facilmente su qualsiasi pagina web che lo riguardi.
A SEATTLE NASCE “IL GUANTO”
Le premesse ingolosiscono tutta la città di smeraldo, che su questo playmaker ripone enormi aspettative per rilanciare la franchigia. Lui ci mette poi del suo, con la consueta sfacciataggine che lo ha sempre contraddistinto, dichiarando dopo la scelta che “giocatori come me e Magic Johnson non nascono molto spesso”. Il risultato è invece un biennio a dir poco deludente, con dubbi sulle qualità del giocatore e con i primi bisbigli che parlano di errore di scelta e possibilità di cessione.
La svolta arriva quando sulla panchina della squadra si va a sedere coach George Karl. Il nuovo allenatore costruisce un clamoroso sistema difensivo che esalta le doti di Payton, tanto da fargli affibbiare il soprannome di “The Glove”, il guanto, che lo accompagnerà per tutta la carriera. La ritrovata fiducia lo porta poi a formare col compagno Shawn Kemp un duo formidabile che permette ai Sonics di assestarsi stabilmente ai piani alti della lega. Nel 1994 Seattle ottiene il miglior record in stagione regolare, ed è pronta ad entrare nella storia con la caccia al titolo.
Nella storia effettivamente ci entra, ma dalla parte sbagliata. Dopo aver infatti vinto in casa le prime due partite contro Denver, qualificata come ottava e senza nessuna velleità di fare strada nei playoff, la truppa prende la trasferta in Colorado come una passeggiata di salute. Errore, perché i Nuggets di Ellis e Mutombo sfruttano al meglio il fattore campo (giocare a quasi duemila metri sul livello del mare aiuta), pareggiano i conti e si vanno a giocare tutto nello spareggio in gara 5, perché allora il primo turno non si giocava al meglio di sette gare come oggi. Seattle perde nel finale, schiacciata dalla tensione e dalla pressione eccessiva, e diventa così la prima testa di serie ad essere eliminata al primo turno da una numero otto. La storia dalla parte sbagliata, appunto. Ci vogliono due anni per riprendersi definitivamente.
Nel 1996 il gruppo raggiunge il suo apice con la finale contro Chicago, ma dopo una battaglia equilibratissima contro una delle squadre considerate tra le più forti di tutti i tempi, arriva la sconfitta per 4-2. Payton si consola con il premio di miglior difensore dell’anno, e se vi sembra poca roba cercate quanti playmaker prima di lui ci sono mai riusciti. Esattamente lo stesso numero di quelli che ci sono riusciti dopo. A occhio e croce direi nessuno. Nemmeno dodici mesi dopo Kemp litiga con la dirigenza e viene scambiato in un giro a tre a Cleveland. Lo sostituirà con discrete fortune Vin Baker, che oggi fa notizia perché costretto a lavorare come commesso di Starbucks per campare, ma che allora era una delle migliori ali forti della lega. Poi alcol, soldi buttati e ancora alcol lo hanno portato lontano da dove il suo talento gli avrebbe permesso, ma questa è storia per un altro racconto.
In quegli anni i Sonics restano sempre in lotta per la finale, ma la magia e la chimica del ’96 non ritornano più. La dirigenza sceglie di rifondare, e per non dover rinnovare il suo leader e la sua bandiera con un contratto altissimo che avrebbe bloccato ogni spazio di manovra, lo cede a Milwaukee con grande rammarico del giocatore e dei tifosi. A Seattle, dopo tredici anni, finisce letteralmente un’era.
CACCIA ALL’ANELLO
Gran professionista Gary Payton. Questo sicuro. Bocca fin troppo grande, trash talker di primissima categoria, ma uomo che in campo mai si è risparmiato. Anche nel finale di stagione ai Bucks, che suonano un po’ come i margini dell’impero nella NBA, trascina i compagni ai play off. Poi, preso atto che la storia con il suo pubblico è finita per davvero, sceglie di cercare di vincere quel titolo che fino ad allora gli era sempre sfuggito. La migliore opzione gliela presenta Los Angels sponda Lakers. I ragazzi sembra vogliano fare sul serio e allestiscono qualcosa che mai si era visto prima. Quattro superstar nella stessa squadra più un mito come Phil Jackson in panchina. Sì perché a Kobe e Shaq che già erano presenti da tempo, oltre a Gary si aggrega anche Karl Malone, certamente avanti con gli anni ma ancora tra i migliori in assoluto nel suo ruolo.
Gialloviola campioni neanche quotati. In finale, la seconda in carriera per Payton, si arriva col pilota automatico e stavolta con il vantaggio del fattore campo. Di fronte i Pistons di Detroit ovvero: un genio in panchina e nessuna superstar in campo. Si parte 0-1 ma Kobe in gara due porta tutti all’overtime e poi al pareggio nella serie. Tutto sistemato come da copione. Tre vittorie in fila a Detroit e anello al dito. Tutto vero, peccato che il dito sia quello di Rasheed e Ben Wallace, di Billups MVP della finale e del “play the right way” predicato da coach Larry Brown. 4-1 Pistons.
Spogliatoio californiano spaccato dal dualismo tra le due superstar più superstar delle altre. Per i tifosi gialloviola una mazzata che non si vedeva dai tempi di gara sette di finale persa in casa contro i Celtics nel lontano 1968. Quella dei palloncini sul soffitto, del canestro decisivo di Don Nelson e del primo e finora unico MVP della finale vinto da un giocatore della squadra perdente, Jerry West. Anche qui materiale in abbondanza per almeno altri dieci racconti diversi, ma la storia di Payton continua.
ULTIMA CHANCE
Una stagione senza sussulti a Boston, gli anni che passano e pesano sempre di più, e che alla vigilia della stagione 2005-2006 dicono 38. Gary sa di non poter più essere una stella, ma almeno un buon veterano di complemento, ed è accettando questo ruolo che firma per Miami dove ritrova Shaq. La stella è Dwyane Wade, la squadra già forte è corroborata dal ritorno di Mourning e così arriva la terza finale della sua carriera. Le premesse però sono pessime. Dallas vince due volte in casa e a Miami sta per chiudere i conti, visto che nessuno mai ha rimontato da 0-3 e i Mavs conducono di tredici lunghezze con sei minuti ancora da giocare.
Payton guarda per la maggior parte del tempo dalla panchina, impotente. Sembra finita, ma un Wade mostruoso e un Gronchi Rosa di O’Neal che fa 2/2 dalla lunetta riaprono la gara. Col punteggio pari e 34” da giocare, coach Riley vuole in campo anche Gary. La difesa costringe Wade a scaricare, la palla gira e con due secondi per tirare arriva proprio a Payton che finta sul recupero, palleggia e con un solo secondo rimasto insacca i due punti più importanti della sua carriera. Tutte le telecamere cercano la sua esultanza, ma la faccia è quella bronzea di ordinanza come a dire “beh, ma che problema c’è? Ho fatto quello che so fare da sempre.”. Miami vincerà partita, serie e titolo certamente per la presenza di Wade e Shaq su tutti, ma senza quel canestro di gara tre sarebbe stata tutta un’altra storia. L’ennesima che non racconteremo qui, oggi.
Numero uno di ogni epoca a Seattle nei punti segnati, negli assist, e nei recuperi.
Nove volte convocato per l’All Star Game.
Otto volte consecutive nominato nel miglior quintetto difensivo NBA.
Oro olimpico ad Atlanta ’96 e a Sidney 2000.
21.813 punti segnati in carriera.
Eppure a volte, per entrare nell’Olimpo dei più grandi di sempre, quelli che sono diventati campioni almeno una volta, te ne servono due segnati al momento giusto.
“Beh, ma che problema c’è?”
Marco Minozzi