Qual è la barzelletta che si finge seria tutto il tempo svelando nel finale la sua assurdità? Qualcuno risponderebbe la morte, altri la vita. A conti fatti entrambi hanno ragione. La beffa nella beffa è che, per cogliere l’aspetto paradossale della faccenda, dobbiamo essere passati dall’altra parte.
A quel punto però, le consapevolezze servono a poco. O forse no. Almeno possono strapparci una risata liberatoria. La sensazione di sollievo che arriva quando realizziamo di non poter (né dover) controllare tutto. Come i tre neodefunti che aprono Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, con cui il regista svedese Roy Andersson ha vinto l’ultima Mostra del Cinema di Venezia.
Due agenti di commercio lavorano per far divertire la gente, eppure, nonostante un campionario di scherzi di Carnevale su cui “puntano molto”, nessuno li prende sul serio. Il materiale è degno di un aneddoto che comincia con “qual è il colmo per..”. La “coppia” attraversa il film inciampando in frammenti di umanità che, come lei, “suonano” fuori tempo rispetto alla “musica di fondo”.
Ballerine stalker, personaggi storici, aspiranti suicidi. Il bestiario umano è davvero ampio. E magari al suo interno c’è qualche potenziale cliente.
Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza
Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza chiude la trilogia “essere un essere umano”. I precedenti episodi erano stati Second Floor (2000) e You, the Living (2007). Il film è composto da 39 piani sequenza che raccontano le diverse facce di una vita vuota, trascinata per inerzia. In che misura gli “obblighi” che abbiamo verso la società anestetizzano i nostri desideri e portano al guinzaglio le nostre azioni?
La risposta è nei corpi innaturalmente bianchi dei personaggi del film. Sembra che Roy Andersson voglia metterci in guardia dalle lusinghe di un marketing onnipresente. Ormai la “forma” vive di vita propria, dopo averla succhiata al contenuto. Perciò questo ora è vuoto come un guscio, ma pochi se ne accorgono, e a nessuno sembra importare.
Il merito del regista svedese è quello di mescolare l’espressività dirompente e raggelante di Otto Dix con l’umorismo fulminante dei Monty python. Così, “cucina” un piatto originale e unico che regala un’immersione in un universo culturale inedito. Può piacere o no, ma certamente apre una finestra su scenari altri. L’unico limite è la durata, che in alcuni passaggi “disinnesca” la stralunata comicità dei personaggi e affatica l’attenzione.
Ma non è da escludere che l’intento del regista fosse proprio questo. Mostrare che prendersi sul serio nuoce gravemente alla salute.