Il fatto è ormai noto anche se, forse, meno di quanto meriterebbe: la RAI, nei giorni scorsi, ha mandato in onda la terza puntata della fiction “Una buona stagione” in edizione-spezzatino, tagliando tutte le scene in cui avrebbe dovuto comparire il popolare attore Ivano Marescotti, “colpevole” di essere candidato alle elezioni europee con la “Lista l’Altra Europa con Tsipras”.
Tagli, quelli decisi dalla RAI, non autorizzati dall’attore né, a quanto si apprende, dagli autori e scrittori dalle cui teste e penne è uscita la fiction.
Si è trattato di una decisione assunta sulla base di un’interpretazione a dir poco “prudenziale” – ma bisognerebbe dire fantasiosa e creativa – della disciplina sulla par condicio in periodo elettorale che preclude ai candidati di comparire anche nelle trasmissioni di intrattenimento, espressione con la quale, tuttavia, si fa evidentemente riferimento a “contenitori” mediatici non prettamente informativi ma i cui contenuti sono comunque organizzati sotto la responsabilità editoriale di una redazione.
Nessun dubbio, in altre parole, che se la RAI avesse chiesto alla commissione parlamentare di vigilanza, competente per l’applicazione della disciplina sulla par condicio, quest’ultima non le avrebbe giammai imposto la macellazione di un’opera cinematografica per eliminare le scene in cui vi compare un attore, incidentalmente anche candidato alle elezioni europee.
Ma il punto non è perché la RAI abbia scelto di auto-censurarsi – oltre, naturalmente, a censurare Marescotti – senza che ve ne fosse un’effettiva necessità né, a ben vedere, cosa dica effettivamente la disciplina sulla par condicio, il punto centrale, in questa brutta vicenda italiana, sta nella leggerezza con la quale un’azienda televisiva di Stato ha scelto di fare carne da macello dei diritti morali d’autore di un attore e di una serie di scrittori ed autori, come se un’opera cinematografica le appartenesse integralmente – in quanto titolare dei diritti patrimoniali d’autore – e come se, quindi, disponesse di potere assoluto di vita, di morte ed amputazione sull’opera stessa.
Non è naturalmente così, non può esserlo perché tanto dice la legge sul diritto d’autore e non deve esserlo perché solo così può essere garantito il “vero” diritto d’autore di un attore che ha il sacrosanto diritto ad andare in scena dopo aver interpretato un copione e degli scrittori e degli autori che hanno l’altrettanto sacrosanto diritto che nessuno faccia scempio dello sforzo creativo – buono o meno buono che sia – dei loro intelletti e delle loro penne.
E’ per questo che più che l’insostenibile leggerezza della scelta della RAI, lascia senza parole il silenzio dei tanti pseudo-tutori del diritto d’autore in Italia, pronti ad ergersi a difensori integerrimi dei diritti degli autori e, soprattutto, degli editori quando si tratta di garantirsi e garantire valanghe di monete d’oro ma incapaci, persino, di scrivere un comunicato stampa quando un’azienda radiotelevisiva di Stato, porta al macello, sulla pubblica piazza, il “vero” diritto d’autore, quello alla paternità di un’opera ed all’identità dell’attore o dello scrittore di un’opera cinematografica.
E’ assordante il silenzio del Nuovo Imaie – l’Istituto mutualistico degli artisti, interpreti ed esecutori -, della SIAE – la Società italiana autori ed editori e dei rappresentanti dell’industria televisiva e cinematografica italiana, tutti pronti a fare fronte comune per chiedere il varo di un decreto sul c.d. equo compenso per copia privata palesemente iniquo o per supportare l’AGCOM nel varo di nuove regole – tanto inutili quanto censoree – per la tutela del diritto d’autore ma poi insensibili al “grido di dolore” di un attore che vede la propria interpretazione censurata da un broadcaster di Stato e al “silenzio forzato” di scrittori ed autori che pure assistono impotenti – per colpa di contratti attraverso i quali vengono sistematicamente espropriati della propria dignità autorale – alla mutilazione della propria opera creativa.
Ed è assordante, allo stesso modo, il silenzio del Ministero dei beni e delle attività culturali, Dario Franceschini, che, pure siede in quel Governo per il quale la RAI, attraverso il contratto di servizio pubblico, lavora o dovrebbe lavorare, nell’interesse collettivo, tra l’altro, alla promozione della cultura.
E’ triste e sconsolante prendere atto di quanto poco, evidentemente, vale nel nostro Paese il “vero” diritto d’autore e dei drammatici effetti prodotti da quanti, con l’alibi di promuovere e difendere il diritto d’autore, ne hanno, in realtà, svilito il significato, la funzione ed il contenuto ad una questione solo di soldi come se l’ingegno o l’interpretazione di un’artista fossero, semplicemente, elementi di un’interminabile catena di montaggio che ha come unico obiettivo la produzione di una “merce”, eguale ad ogni altra, da vendere “a peso” o da mutilare o addirittura ritirare dal mercato se considerazioni commerciali o politiche lo suggeriscono.
Ma è davvero “solo” questo il diritto d’autore?
La domanda è, ovviamente, retorica ma la sensazione è che molti pseudo-difensori del diritto d’autore oggi risponderebbero affermativamente.