La SIAE – società italiana autori ed editori – è l’ente pubblico economico a base associativa al quale la legge affida il compito di raccogliere, gestire e distribuire l’ormai celeberrimo equo compenso per copia privata ed è anche il soggetto che ha, sin qui, “suggerito” al Ministero dei beni e delle attività culturali come “aggiornare” le tariffe dell’equo compenso, spingendosi fino a scrivere essa stessa il testo del decreto e trasmetterlo al Ministero su propria carta intestata.
Al di là dei punti di vista ed al di là della circostanza – che pure non andrebbe mai dimenticata – che la SIAE difende, giustamente, gli interessi degli autori e degli editori e, forse, meno giustamente, quelli del proprio portafoglio [n.d.r. guai a dimenticare che la società trattiene il 7% del fiume di denaro che incassa a titolo di equo compenso] verrebbe da pensare che si tratti di un soggetto che conosce la legge che governa la materia meglio e più di ogni altro e che ne sia “supremo tutore”.
E’ per questo che lascia senza parole leggere su “VivaVerdi”, l’organo ufficiale di stampa della SIAE, un articolo sulla copia privata nel quale oltre a difendere, comprensibilmente, l’aumento delle tariffe sull’equo compenso e promuovere la petizione online firmata – almeno così si dice – da migliaia di artisti, si fa letteralmente carne da macello della disciplina sull’equo compenso, definendone i principi cardine “questioni di lana caprina” e sconvolgendone senso, obiettivi e finalità.
Ma val la pena di riproporre uno stralcio dell’articolo che è, comunque, accessibile, in versione integrale, qui.
Ecco quanto scrive, Massimo Nardi, redattore della rivista e SIAE addicted di vecchia data, nel commentare le critiche alla tesi della SIAE circa l’esigenza di aumentare di oltre cento milioni di euro all’anno le tariffe sull’equo compenso: “Tra le altre contestazioni vogliamo citarne una che ci sembra particolarmente esemplificativa per il suo evidente aspetto di “lana caprina”: il diritto di copia privata sarebbe obsoleto perché oggi pochi utenti effettuano copia sulle memorie di massa, privilegiando l’uso dello streaming. Questi sottili distinguo non centrano il cuore del problema che ha invece una rilevanza culturale e sociale molto più ampia. Tutti gli strumenti tecnologici idonei alla comunicazione sono funzionali per loro natura alla diffusione e fruizione di opere creative a prescindere dalle modalità che sono (o che saranno) utilizzate. Il successo di mercato delle ricche multinazionali delle tecnologie (per usare le parole della petizione degli autori) è determinato in buona parte dal fatto che i loro prodotti vengono acquistati dagli utenti perché danno la possibilità, nei modi e nelle forme più diverse, di accedere ai contenuti creativi”.
Come dire che l’equo compenso per copia privata sarebbe dovuto – secondo la tesi illuminata con la quale la SIAE vorrebbe far piazza pulita delle “questioni di lana caprina” e dei “sottili distinguo” dei propri “oppositori” – anche laddove gli utenti non facciano alcuna copia delle opere creative delle quali fruiscono, limitandosi ad ascoltarle o guardarle in streaming.
Il principio alla base della disciplina sull’equo compenso per copia privata, infatti, secondo SIAE, sarebbe molto più semplice e lineare: “le ricche multinazionali delle tecnologie” – che poi significa i consumatori sui quali, naturalmente, queste ultime ribaltano ogni “balzello” – dovrebbero farsi carico di versare un compenso, equo o iniquo che sia, semplicemente perché è anche grazie all’industria dei contenuti che vendono i propri dispositivi.
Guai a negare che il principio abbia una sua logicità ma, ad un tempo, guai ad accettare l’idea che sia quello alla base della legge sul diritto d’autore che, invece, è radicalmente diverso e prevede che autori ed editori abbiano diritto ad un equo compenso solo laddove il consumatore oltre a fruire del contenuto legittimamente acquistato secondo le modalità oggetto del contratto di licenza, ne faccia, per uso personale, una copia ulteriore e diversa.
Altro che “questioni di lana caprina” e “sottili distinguo”, chi fruisce di un’opera dell’ingegno in streaming dopo aver pagato il prezzo di una licenza o, comunque, senza farne alcuna copia ulteriore rispetto a quella che gli è stata licenziata non deve, naturalmente, pagare neppure un euro di più giacché, altrimenti, finirebbe con il pagare due volte.
Ma questo, in SIAE, naturalmente lo sanno benissimo.
L’organo ufficiale di stampa della SIAE, quindi, è semplicemente utilizzato come strumento di propaganda e disinformazione per affermare un principio che, evidentemente, sta a cuore alla società e che, d’altra parte, la renderebbe mostruosamente meno povera (ndr lo stato dei bilanci della SIAE non consente neppure di pensare che dieci milioni di euro in più la renderebbero più ricca).
E’ pero grave che una rivista di cultura ed informazione sia piegata a questo genere di usi ed obiettivi.