L’intervento di Massimo D’Alema alla riunione della minoranza PD di sabato scorso ha suscitato notevoli polemiche, per l’accusa rivolta a Matteo Renzi di gestione “personale ed arrogante” del partito, a cui hanno fatto seguito le repliche piccate dei fedelissimi del premier, pronti a ricordare i successi raccolti dal PD – in primis, il 40% registrato alle Europee – da quando l’ex sindaco di Firenze è alla guida del partito. Ma nell’invettiva di D’Alema è spuntato anche un riferimento alla capacità delle minoranze di fare sentire la propria voce (e quindi il proprio dissenso).
D’Alema nel suo intervento è stato estremamente chiaro, a proposito del modus operandi che la minoranza dovrebbe attuare, trovando dei punti su cui convergere (quindi invocando una maggiore unità delle varie anime della minoranza PD), cercando di stabilire “punti invalicabili” da difendere con “assoluta intransigenza”. E ha aggiunto: “non si annunciano ultimatum, si danno dei colpi quando è necessario, cercando di fare in modo che lascino il segno”.
Se a qualcuno la dichiarazione dell’ex segretario DS ha fatto tornare alla mente l’ormai famigerata vicenda dei 101 che affossarono Romano Prodi – e, conseguentemente, Pier Luigi Bersani e la credibilità del PD di allora – D’Alema ne ha approfittato per tornare invece sull’ultima elezione per il Colle. Sminuendo i meriti del premier, in riferimento a chi riteneva che l’elezione di Mattarella avesse ricompattato il partito democratico. Secondo D’Alema, infatti, Renzi non avrebbe scelto Mattarella sulla base di “un afflato unitario”, ma avrebbe optato per l’ex ministro solo nel momento in cui “ha capito che su un’altra strada probabilmente avrebbe perso”.
Il video dell’intervento di Massimo D’Alema
Quirinale, quale era il primo nome di Renzi?
A questo punto, ipotizzando che Mattarella non fosse davvero la prima scelta del premier, bisognerebbe cercare di capire quale possa essere l’identikit del nome in cima alla lista dei desideri di Matteo Renzi. Una lista dalla quale sembra plausibile escludere candidati come Pier Carlo Padoan e Giuliano Amato, molto vicini all’ex segretario dei DS – a partire dalla fondazione dalemiana Italianieuropei, in cui il primo è membro dell’advisory board, mentre il secondo ne è stato presidente nonché co-direttore della rivista omonima – ed apprezzati quindi anche dalla minoranza PD vicina a D’Alema.
Un altro nome potrebbe essere quello di Romano Prodi, una candidatura che già nel 2013 aveva dimostrato di essere ampiamente divisiva sia all’interno del partito – con l’opposizione della truppa dalemiana guidata da Ugo Sposetti alla quale secondo le ricostruzioni successive si aggiunsero deputati di varia estrazione impauriti dalla prospettiva di possibile fine anticipata della legislatura. E questo nonostante negli ultimi mesi si fossero rincorse le voci più disparate che lo volevano praticamente candidato da tutti, per motivi perlopiù contrapposti. Da un possibile asse Fitto-D’Alema per mettere i bastoni tra le ruote del Patto del Nazareno – candidando Prodi – alla possibilità che fosse addirittura l’acerrimo nemico Silvio Berlusconi a darne il via libera, nell’ottica dell’apertura di una reale era di pacificazione nazionale – dopo un ventennio di contrapposizione feroce – tale da concedere al fondatore di Forza Italia la tanto agognata agibilità politica o addirittura quella grazia mai presa in considerazione dal predecessore al Colle, cioè Giorgio Napolitano. A discapito di una candidatura del fondatore dell’Ulivo va anche il suo enorme “peso specifico”, che per Renzi avrebbe potuto essere decisamente più ingombrante di quello rappresentato da Mattarella o chi per lui.
Quali alternative restano? Sostanzialmente due: l’ipotesi di un fedelissimo renziano e quella di un esponente del centrodestra. Entrambe invise ovviamente – e per motivi completamente diversi – alla minoranza PD, che nel primo caso avrebbe dovuto certificare ulteriormente l’ascesa incontrastata di Matteo Renzi, mentre nel secondo avrebbe contribuito a blindare con un patto di sangue quel Nazareno a lungo mal digerito. Del resto, non è un mistero che del totonomi facessero parte anche politici come Graziano Delrio e Pier Ferdinando Casini – riavvicinatosi notevolmente a Berlusconi negli ultimi tempi – con quest’ultimo che ha peraltro pubblicamente ammesso di essere stato in lizza quale candidato principale (insieme all’outsider Antonio Martino) del centrodestra.